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Nicola Imberti [email protected] Barcolla, ma non molla. ...

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In fondo è una sua caratteristica. Da buon ciclista, quando la salita si fa più dura, il Professore si alza in piedi sui pedali e spinge. Poco importa che Clemente Mastella abbia certificato, numeri alla mano, la fine dell'Unione. Lui non molla. Così, immediatamente dopo l'annuncio del gran rifiuto mastelliano, il premier riceve a Palazzo Chigi i vertici del Partito Democratico. I primi ad arrivare sono Dario Franceschini e Walter Veltroni, che abbandona la presentazione del libro di monsignor Rino Fisichella presso il Museo del Corso, a pochi passi da piazza Colonna. Il sottosegretario Enrico Letta è già lì. Nell'ordine, si presentano a cospetto di Prodi anche i due vicepremier Massimo D'Alema e Francesco Rutelli, il capogruppo del Pd alla Camera Antonello Soro, i ministri Giuseppe Fioroni, Arturo Parisi e Vannino Chiti, e Piero Fassino. La prima mossa è un attacco al «traditore» Mastella. Da Palazzo Chigi fanno filtrare che la lettera con cui l'ex Guardasigilli ha comunicato al premier le sue intenzioni è arrivata dopo che le agenzie avevano battuto la notizia. «Avevamo capito che ci sarebbe stata una mossa a sorpresa - spiegano dalla presidenza del Consiglio - perché per due giorni Mastella non si è fatto trovare. Potevamo immaginare qualcosa del genere, ma non certo di leggerlo sulle agenzie». Intanto tra i maggiorenti del Pd non c'è chiarezza sul da farsi. D'Alema lascia intendere di essere favorevole ad un governo istituzionale. Altri vorrebbero le elezioni anticipate. Ci pensa il presidente del Consiglio a togliere le castagne dal fuoco con una mossa che spiazza gli uditori. Il Professore viene descritto come «sereno», preoccupato per quanto successo, ma non eccessivamente. A chi lo ascolta espone con calma la sua strategia che può essere riassunta in due parole: parlamentarizzare la crisi. Prodi vuole presentarsi alle Camere, aprire un dibattito, verificare le reali intenzioni dell'Udeur, trarne le dovute conclusioni e poi decidere se salire o meno al Quirinale. «Se devo cadere - ripete ossessivamente - cadrò in Parlamento con un voto di sfiducia». Anzi, per rendere più ardua l'ipotesi di un governo istituzionale, il presidente del Consiglio vuole dimostrare di avere la maggioranza in uno dei due rami. Inutile dissuaderlo. Ai vertici del Pd non resta che prendere atto delle decisioni del Professore che, subito, telefona a Giorgio Napolitano per illustrargli i prossimi passi e poi a Fausto Bertinotti, che convoca immediatamente una capigruppo per stamattina alle 9. Il dado è tratto. Ora si può coinvolgere il resto della coalizione. I segretari dei partiti vengono convocati a Palazzo Chigi. In molti, soprattutto nell'ala radicale del centrosinistra, cominciano a pensare che le elezioni anticipate siano l'unica soluzione. Rifondazione si spacca tra l'ala «bertinottiana» (governo per le riforme) e quella «giordaniana» (al voto, al voto). I diniani spingono per un esecutivo tecnico. E sullo sfondo resta l'incognita Napolitano che proverà fino all'ultimo ad evitare il ricorso alle urne. E Veltroni? Il leader del Pd appare in trappola. E anche il futuro è tutt'altro che roseo. A Palazzo Chigi fanno notare che un'interruzione prematura della legislatura potrebbe convincere Prodi a concorrere alle primarie per la premiership, contro il segretario del Pd. «Lui ha dimostrato di poter garantire tutti - spiegano - Walter no». Romano non molla mai. Proprio mai.

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