Padoa: «Freniamo l'assalto della sinistra»
trai banchi del governo al Senato. È lunedì sera, la Finanziaria ha appena iniziato il suo iter nell'aula di Palazzo Madama. Parlottano i due, scherzano. Si conoscono da decenni, hanno vissuto gli anni appasionanti della Banca d'Italia, uno direttore (Dini), l'altro vice. E ancora prima si sono incrociati negli studi negli Stati Uniti. Hanno la stessa formazione, una vita assieme e anche destini incrociati. Condividono molte idee in tema di politica economica. Condividono la stessa linea. Che non è la stessa di Romano Prodi. Non è un caso che anche la linea tra il palazzo del Senato di piazza Cinque Lune che ospita l'ufficio del presidente della Commissione Esteri e via XX settembre, dove ha sede il ministero dell'Economia, è sempre stata calda. Non rovente, ma calda sì. Lo stesso non si può dire dei rapporti tra l'ex premier e Prodi. Si sono visti il 25 settembre a New York, dopo il silenzio. Il Professore ha cercato un nuovo contatto ma Dini ha risposto picche. Ha chiamato un comune amico chiedendo di fissare un incontro ma Lamberto ha risposto alla toscana, polemicamente: «Quello che avevo da dirgli, gliel'ho detto». E ha aggiunto: «E poi, se mi cerca sa dove trovarmi». Il Professore ha preso coraggio e lo ha fatto chiamare. Solo che dall'altro capo del telefono, quando la segretaria gli ha annunciato che c'era la sua collega del presidente del Consiglio, Dini è stato ancora più gelido: «Parli con D'Amico (senatore suo fedelissimo)». Ecco, proprio in quei momenti, ed era pieno mese di ottobre, il presidente della commissione Esteri continuava a parlare con Padoa Schioppa. Ed è stato proprio lui a sbloccare la situazione, facendo in modo che il leader dei Liberaldemocratici si decidesse ad andare a Palazzo Chigi. Dopo oltre un mese Dini e Prodi si sono rivisti. E Dini si è sentito dire quello che in fin dei conti s'attendeva, il riconoscimento del ruolo, l'essere argine nei confronti dell'ala estrema della coalizione, argine nei confronti dei comunisti. E non è un caso dunque che cinque giorni dopo l'ex premier s'è sentito ripetere da Padoa Schioppa, nell'aula del Senato, quelle stesse parole: «Grazie a voi abbiamo placato l'assalto della sinistra». Ora è il ministro dell'Economia a temere. Teme che la sua Finanziaria venga fatta a pezzi, ne venga stravolta la filosofia per esempio con l'assunzione in massa di precari nella pubblica amministrazione. Ma teme soprattutto che il protocollo del welfare venga smembrato, che la parte sulle pensioni venga approvata subito e quella sul lavoro finisca alle calende greche. Almeno questa è l'ultima richiesta dell'estrema sinistra. A cui ha risposto subito Dini. Il quale, nonostante i sorrisi e le pacche sulle spalle con Padoa, ha fatto sapere: «Noi alla riunione governo-maggioranza (si terrà stamattina, ndr) sulla Finanziaria non ci saremo, non siamo stati informati». Per il resto i diniani continuano a confermare la loro posizione. Italo Tanoni, fedelissimo dell'ex ministro degli Esteri, si limita a un sibillino: «Sulla politica del rigore non ci spostiamo di un millimetro». E Giuseppe Scalera, l'altro senatore del gruppo, ormai parla quasi a monosillabi. Più che fare commenti sembra parlare in codice: «La partita è aperta, la partita è aperta». Ma ormai è marcato a uomo, e non è facile vista la stazza. Lo segue come un'ombra Antonio Boccia, il sergente dell'Ulivo, il buttadentro della maggioranza, nel senso che è colui il quale è deputato a spingere in Aula durante le votazioni i senatori che magari s'attardano nel Transatlantico. Tanto per capire l'aria che tira Scalera stava lentamente finendo il pranzo, erano le tre del pomeriggio e mancava un'ora all'inizio delle votazioni. Boccia, in giro di perlustrazione al ristorante per recupare senatori attovagliati, si è andato subito a sincerare che non ci fossero sorprese. Poi ha pensato bene che era meglio comunque coccolare il diniano dissidente e gli ha offerto un po' di biscottini veneti. La maggioranza si tiene anche grazie a quelli.