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Alla Farnesina coesistono tre linee diverse

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Ma alla fine quasi tutti sono antiamericani

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Non una novità, ma anzi l'ennesima di una lunga lista. Crisi diplomatiche che rincorrono la vita del governo, da quando scoppiò la questione del ritiro delle truppe italiane dallo scenario di guerra iracheno al tema dell'allargamento della base Usa di Vicenza, passando per la vicenda Abu Omar. Un'incredibile progressione che secondo alcuni è anche il frutto di una squadra agli Esteri troppo ampia e molto spesso in confusione di idee. Tre viceministri - Danieli, Intini e Sentinelli - e quattro sottosegretari - Craxi, Crucianelli, Di Santo e Vernetti - se si pensa che tutto il lavoro prima con Gianfranco Fini era svolto solo da cinque sottosegretari. Così capita di sentire Bobo Craxi che apre al governo di Hamas per la fine dell'embargo o il viceministro Sentinelli che aderisce alla proposta di Fassino di invitare al tavolo della Conferenza afgana anche i talebani. Confusione che secondo molti spiega anche le crisi ripetute con gli Usa. Segno di una politica troppo piegata alle esigenze di una maggioranza frammentata e rissosa. Si iniziò quasi subito, dopo la nascita del Governo. Nodo della questione il ritiro dall'Iraq, un tema centrale del programma elettorale dell'Unione ma mal digerito dagli americani. Così il 12 giugno D'Alema vola in Usa. Obiettivo spiegare le modalità del ritiro delle nostre truppe evitando di irritare i già irritati americani. Alla fine si decide: va bene il ritiro, ma con l'accordo degli iracheni, cioè degli americani. Poche settimane e scoppia il caso Abu Omar, l'ex Imam rapito a Milano il 17 febbraio del 2003. La procura di Milano indaga ed alla fine arresta il capo del Sismi Mancini chiedendo anche l'estradizione di 26 cittadini americani, agenti Cia, colpevoli, secondo i magistrati, del rapimento di Abu Omar. Faccenda delicata, ancora sul tavolo del ministro Mastella, con il consulente legale del Dipartimento di Stato americano che continua a ripetere che «non accetteremo di estradare ufficiali americani verso l'Italia». Dopo l'estate si apre un altro fronte con gli Usa, quello di Silvia Baraldini condannata in America a 43 anni di carcere. Portata in Italia grazie un accordo con gli Stati Uniti viene liberata con l'indulto. Gelo ed irritazione da Washington per la violazione del patto sottoscritto nel 1999 e che prevedeva il carcere fino al 2008. Ad ottobre si accende la questione dell'allargamento della base Usa di Vicenza, che si trascinerà fino alla manifestazione di febbraio dell'Unione, contraria alla nuova costruzione. Il tutto suggellato dalla famosa informativa americana emanata nel giorno del corteo che avvisava i suoi cittadini di stare alla larga dalla città. A novembre è invece l'ambasciatore Spogli a denunciare che «da membri dell'estrema sinistra della coalizione si sentono dichiarazioni antiamericane molto sgradevoli». L'occasione sono i cortei pro-Palestina di Milano e Roma organizzati dalla sinistra radicale e dove vengono bruciate le bandiere Usa ed i fantocci che raffigurano soldati americani. Anno nuovo, nuova crisi. Stavolta si tratta della lettera firmata da sei ambasciatori di Paesi Nato, tra cui quello americano, che chiedono all'Italia di confermare il suo impegno in Afghanistan. Un'iniziativa «irrituale» per il ministro D'Alema, «lodevole» secondo il Dipartimento di Stato. In ballo c'è l'impegno italiano in Afghanistan e la sua continuazione. Gelo su gelo. Freddezza che si aggiunge a freddezza. Fino all'altro giorno quando in un botta e risposta a distanza gli americani, prima in via anonima, e poi platealmente bollano come «pericolosa l'intesa con i talebani» per la liberazione di Mastrogiacomo e di «concessioni fatte che hanno aumentato le minacce per il popolo afgano». Per D'Alema non c'è crisi. Ma per gli americani questa è stata «l'ultima concessione» a quello che al Pentagono considerano come il Governo più antiamericano della storia repubblicana.

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