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Il vicepremier rilancia la conferenza di pace ma non chiede un tavolo con i guerriglieri

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Ribadisce che non basta l'impegno militare, ma bisogna pensare anche al progresso civico, democratico ed economico del Paese. E coinvolgere nel processo di pacificazione e ricerca della stabilità le nazioni vicine. Fin qui il ministro degli Esteri recita un copione che piace alla sinistra radicale e, in vista del voto del 27 al Senato, potrebbe far guadagnare al governo il consenso dei pacifisti massimalisti dell'Unione sul rifinanziamento della missione afghana. Ma è importante anche quello che D'Alema non dice. E davanti ai membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu, il vicepremier tace sulla data della conferenza e sull'eventuale partecipazione al summit dei talebani, suggerita dal segretario del suo partito Piero Fassino. Non solo. Al termine del discorso newyorkese durato un quarto d'ora, il responsabile della Farnesina fa una considerazione che non piacerà certo a quanti nella maggioranza sventolano bandiere arcobaleno: la guerra sta arrivando ad Herat, dove ci sono i nostri soldati, spiega ai giornalisti. E subito aggiunge: «Ma non invieremo più militari, né cambieremo il mandato alle truppe». In attesa di sapere che succederà a Palazzo Madama, l'iniziativa di D'Alema ha intanto avuto un primo successo. Gli Stati Uniti, per bocca del portavoce del Dipartimento di Stato Sean McCormack, hanno fatto sapere che una conferenza di pace «può essere una proposta costruttiva». McCormack, riferendosi all'incontro di lunedì sera fra D'Alema e Rice, ha detto: «Desideriamo comprendere alcuni dei dettagli relativi a questa conferenza e, fondamentalmente, desideriamo conoscere l'opinione a questo riguardo del governo dell'Afghanistan. Pensiamo che sia una idea che merita di essere discussa e che si debba vedere se, sulla base di questa discussione, si possa andare avanti». Nel suo intervento al Palazzo di Vetro, il ministro degli Esteri ha ribadito che «dovremmo essere aperti alla possibilità di una conferenza internazionale», sottolineando come il processo di pace e stabilità rischia di rimanere su «un terreno instabile» in mancanza di «un solido e veloce progresso» anche nelle condizioni di vita della popolazione, nella ricostruzione civile e delle istituzioni a livello nazionale e provinciale. Il capo della diplomazia italiana ritiene che si possa procedere su questa strada anche attraverso una efficace «dimensione regionale» con un processo che permetta «un pieno e positivo coinvolgimento dei Paesi vicini». Inoltre la comunità internazionale dovrebbe rinnovare e rafforzare il suo appoggio al processo di riconciliazione nazionale lanciata dal presidente afghano Karzai attraverso un processo di stabilizzazuionme regionale che coinvolga i Paesi vicini e la comunità internazionale. L'obiettivo è quello di lavorare per un Afghanistan «migliore» e che sia «sicuro prospero e libero», perché il popolo afgano «merita il nostro appoggio», ha concluso D'Alema. Poco dopo, ai cronisti, ha confessato: «Purtroppo devo dire che la guerra, la guerriglia sta arrivando anche ad Herat e non credo che le truppe italiane siano in una buona situazione. Stiamo andando ad affrontare momenti difficili. La mia opinione, però, è che non possiamo inviare più truppe e non possiamo cambiare il mandato delle nostre truppe». [email protected]

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