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ALLA fine di una giornata convulsa, l'unica certezza è che Daniele Mastrogiacomo è ancora trattenuto ...

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È attorno a questo unico punto fermo si è sviluppato per tutta la giornata il lavoro degli uomini dell'intelligence che dal 5 marzo stanno cercando di riportare a casa l'inviato di Repubblica. Perché in mezzo a tante voci, smentite e silenzi, «l'unica cosa da fare - dice uno di quelli impegnati sul campo - è non cadere nel gioco al rialzo e tenere la barra ferma». La trattativa per il rilascio di Mastrogiacomo, secondo quanto si è appreso, era a buon punto già l'altra sera, dopo una lunghissima giornata in cui si erano susseguite decine di telefonate tra l'Italia e l'Afghanistan. L'accordo, insomma, sarebbe stato praticamente concluso e ancora una volta sarebbe toccato ad Emergency il ruolo di «postino» e tramite tra le due parti. Ed è infatti proprio l'associazione umanitaria sta svolgendo un ruolo attivo. «Per quel che ne sappiamo - dice il vicepresidente Carlo Garbagnati - non sono state ancora interamente soddisfatte le condizioni che coloro che detengono Mastrogiacomo ponevano». Condizioni che, aggiunge, i talebani, «avevano motivo di ritenere che potessero essere accolte». Quanto al giornalista va considerato «una persona ancora detenuta e ancora in pericolo». Poco dopo, dalla Farnesina, il segnale di un ulteriore sviluppo positivo: «Tutte le condizioni sono state soddisfatte», facevano sapere le fonti diplomatiche. Le parole di Garbagnati significavano che qualcosa si era inceppato all'ultimo momento. Ma che cosa? L'intesa, secondo quanto si è potuto apprendere, sarebbe stata raggiunta sulla base di uno scambio di prigionieri, da effettuarsi nell'ospedale dell'associazione umanitaria a Lashkargah: Mastrogiacomo e il suo interprete Ajmal Nasckbandi in cambio di Abdul Latif Hakimi e Ustad Yasir, rispettivamente il portavoce ufficiale dei talebani arrestato a Quetta, in Pakistan, nel 2005 e il responsabile della sezione culturale del movimento al tempo in cui il regime talebano governava Kabul, condannati all'ergastolo il primo; a sette anni il secondo. Quanto a Mohammed Hanif - il terzo portavoce dei talebani di cui si è parlato come uno dei prigionieri da scambiare, arrestato nel gennaio del 2006 al confine tra Afghanistan e Pakistan - ad opporsi alla consegna non sarebbero state le autorità afgane, ma lo stesso Hanif. Forse per paura di essere ucciso dopo aver spifferato ai servizi segreti afghani - che lo hanno subito reso noto - che il mullah Omar si troverebbe a Quetta protetto dai servizi pachistani. Ma la trattativa si è inceppata: il tourbillon delle notizie, innescatosi al mattino, non ha semplificato le cose, ma - si rileva - non è stato determinante. Che cosa è successo allora? Anche in questo caso si possono fare soltanto delle ipotesi. Una, soprattutto. Un rilancio da parte dei talebani, una richiesta ulteriore, non di denaro ma che potrebbe riguardare la liberazione di altri detenuti.

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