di GIANLUCA FERRETTI IL GIORNO dopo, all'ospedale San Camillo, non è stato facile.
Tanto che Giovanna Scassellati, responsabile del centro per le interruzioni volontarie di gravidanza del San Camillo Forlanini di Roma, ha dichiarato che «il consenso informato e il modulo per la rinuncia alle cure intensive nel caso il feto sopravviva all'aborto praticato tardivamente lo applichiamo solo nel caso di gravi malformazioni del bambino. Se si tratta di un problema psichico della donna, che si accorge magari di essere incinta al quinto mese, cerchiamo di non praticare l'aborto». L'idea di far firmare questo documento alle donne prima di abortire «mi è venuta tre mesi fa, dopo un caso analogo a quello che si è verificato a Firenze, dopo aver parlato con i neonatologi e il padre del bambino, che non aveva capito cosa aveva firmato. Noi già chiediamo il consenso informato quando pratichiamo l'amniocentesi, e abbiamo deciso di farlo anche per l'aborto tardivo». Ma i vertici dell'ospedale in serata hanno fatto una vigorosa marcia indietro, «isolando» in un angolo l'autrice del documento: «Il modulo sul consenso informato che sarebbe in uso presso la struttura diretta dalla dottoressa Scassellati, è stato compilato ed adottato autonomamente dalla responsabile del Centro regionale di riferimento per la legge 194 senza che questo fosse visionato, come da prassi, dal direttore di Dipartimento dal direttore sanitario del Presidio ospedaliero San Camillo». Lo precisa la direzione aziendale del San Camillo Forlanini secondo la quale «si tratta di un'iniziativa di particolare gravità, anche alla luce della procedura consolidata, relativa a casi similari, secondo la quale i moduli sul consenso informato, visionati preventivamente dalla Direzione Aziendale, vengono validati dal Comitato Etico Aziendale e dal servizio di Medicina Legale». E la direzione generale annuncia che attiverà immediatamente un'inchiesta interna «finalizzata a valutare le responsabilità professionali e personali». L'Associazione Scienza & Vita aveva già duramente commentato l'accaduto: «La scorciatoia del consenso informato, se nello specifico rimette al sicuro la classe medica da eventuali rivalse, nei fatti la deresponsabilizza», perché serve a «ricondurre tutto alla volontà esclusiva del malato o del genitore in caso di aborto», e «potrebbe configurarsi come una pratica ai limiti della legalità». Insomma, «l'orrore è servito», si legge nella nota, in cui si evidenzia il legame tra questa decisione e la morte del bimbo al Careggi di Firenze, nato vivo dopo l'aborto. E Ignazio Marino, presidente della commissione Sanità del Senato, commenta che «un bambino trattato in terapia intensiva a 21 settimane, in Florida, vive ancora a distanza di circa 4 mesi». Ma non solo: «Oggi il 70% dei bambini che nascono a 24 settimane sopravvive se, per cause fetali o materne, la madre è costretta a partorire. Nel '78 a 26 settimane ne sopravviveva meno dell'1%».