Ferrero, Pecoraro Scanio e Bianchi pronti a dire no al decreto
Anche se la sinistra radicale è pronta a dire «no». Per evitare questo, Romano Prodi continua a trattare con i segretari di Rifondazione comunista, Verdi e Comunisti italiani, e stamattina avrà un nuovo giro di consultazioni con gli alleati. Il governo affiderà comunque a Vannino Chiti il compito di aprire un tavolo con i capigruppo parlamentari dell'Unione per trovare un accordo prima della conversione in legge del provvedimento. Il decreto, che dovrebbe contenere nuove indicazioni sull'invio dei civili e l'organizzazione di una conferenza internazionale, non è ancora stato redatto nella sua versione definitiva (ufficialmente per problemi tecnici legati alla copertura economica). Ma i ministri Paolo Ferrero (Prc), Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi) e Alessandro Bianchi (Pdci) continuano a chiedere discontinuità e minacciano di non votarlo. Anche se, alla fine, è possibile che il loro dissenso si limiti ad una non partecipazione al voto. In questo caso, rispetto ad un voto contrario, la ferita sarebbe meno dolorosa, con la possibilità di rimarginarla nella trattativa in Parlamento. Se oggi il Cdm approvasse un testo di massima, infatti, il tavolo coordinato da Chiti potrebbe poi intervenire anche con alcune modifiche. Prc, Verdi e Pdci avrebbero voluto più tempo, puntavano ad un rinvio. Ma Palazzo Chigi è stato irremovibile anche perché, avrebbe sottolineato Massimo D'Alema ai colleghi di governo, domani ci sarà il vertice dei ministri degli Esteri della Nato e l'Italia non si può presentare in una situazione di incertezza sull'Afghanistan. Il confronto, già aspro, si annuncia difficile nelle settimane che verranno. Anche ieri, in una riunione dei capigruppo dell'Unione alla Camera con Chiti, i partiti della sinistra radicale hanno ricordato la difficoltà di controllare il gruppetto dei senatori dissidenti, e i problemi che potrebbero avere con la loro base elettorale se i soldati restassero a Kabul. Il rischio, che tutti nell'Unione hanno ben presente, è quello di un'approvazione del decreto al Senato con i voti determinati della Cdl. In quel caso si aprirebbe un problema politico. Lo stesso D'Alema, intervistato dal Messaggero, avverte: «Qualunque esecutivo in politica estera deve essere autosufficiente». Nel frattempo l'opposizione sta alla finestra e aspetta di vedere cosa succede. Il centrodestra si è già detto pronto a dire «sì» al rifinanziamento della missione, escludendo però un voto a favore nel caso il governo ponesse la fiducia. Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi, sfida Prodi: «Noi voteremo a favore. Spero però che il governo non arrivi al voto di fiducia, ma abbia il coraggio di affrontare la questione: ha o non ha la maggioranza?» In attesa di sapere cosa succederà anche la Ue dà indicazioni al governo. A Roma per un'audizione alla commissione esteri della Camera, l'inviato speciale Ue a Kabul Francesc Vendrell, ha indicato che la via da seguire per l'Afghanistan è «un approccio militare, politico, diplomatico e di ricostruzione» sottolineando che «la presenza civile e militare è necessaria almeno per i prossimi due anni». E, mentre la questione Afghanistan entra nel vivo, non si placa la polemica sulle basi Usa in Italia. Ieri è arrivata la notizia che anche l'insediamento militare di Sigonella sarà presto raddoppiato. Un'ipotesi nettamente smentita dal ministro della Difesa Parisi ma che ha comunque messo in allarme la sinistra radicale.