«Non vogliamo far cadere il governo». A tarda sera summit a palazzo Chigi sull'Afghanistan
Da un «lato», Oliviero Diliberto ribadisce la sua chiusura sulla questione della base Usa a Vicenza. Da un altro, «apre» sull'Afghanistan anche se ponendo condizioni precise a Palazzo Chigi. Da un altro ancora, il terzo, non vuole che il decreto sul rifinanziamento della missione italiana nel Paese asiatico «passi» grazie ai voti della Cdl (e però non assicura il «sì» tout court del Pdci). Infine, come ha detto lui stesso ieri, il segretario dei Comunisti Italiani «non ha la minima intenzione di far cadere» il Professore ma teme che, «errore dopo errore» l'esecutivo possa suicidarsi. Al di là di un atteggiamento che prefigura flessibilità «condizionate», la vera novità nelle dichiarazioni del segretario del Pdci è che il suo «no» al rifinanziamento non è granitico. «Spero che sull'Afghanistan il governo abbia voglia di sedersi intorno a un tavolo», ha affermato. E ieri, in tarda serata, Diliberto, il leader dei Verdi e ministro dell'Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio e il segretario di Rifondazione, Franco Giordano, si sono recati a palazzo Chigi per un incontro sul nodo Afghanistan con il premier Prodi e i ministri degli Esteri, Massimo D'Alema, e della Difesa, Arturo Parisi. Il vertice è stato definito un «inizio di dialogo politico». Per Diliberto, come per altri esponenti della sinistra radicale, si tratta di definire la cosiddetta exit strategy: «Si vuole una chiara indicazione da parte del governo sui modi e sui tempi per il ritiro dei nostri militari», ha spiegato. Poi, dopo aver criticato duramente la politica internazionale americana, ha riconosciuto a Prodi di aver «dato segni di discontinuità rispetto al passato». Un gesto grazie al quale «ora siamo visti come interlocutori per i popoli che lottano per la pace». E il «miele» nelle sue parole non finisce qui. Anche di fronte il rifiuto di ritirare i nostri soldati da Kabul pronunciato dal ministro degli Esteri, Diliberto appare conciliante: «Nelle parole di D'Alema - ha sottolineato - ci sono anche aspetti positivi. Dice che sarebbe una rinuncia lasciare l'Afghanistan ma pure che noi italiani siamo in prima fila per un forte impegno umanitario. E questa seconda parte mi interessa molto - chiosa il segretario dei neocomunisti - perchè coltivo la speranza che si possa indicare una via d'uscita come per l'Iraq, anche perché l'Italia è già fortemente impegnata in Libano». Ma sulla polemica per la base Usa, Diliberto torna Diliberia. E ha ribadito che «l'ampliamento è stato concesso in aperta contraddizione con la nostra politica estera. Noi non ci stiamo - ha ripetuto il leader del Pdci - anche perché diventerebbe la più grande base americana in Europa e, quindi, un obiettivo sensibile del terrorismo internazionale». Insomma, Palazzo Chigi «deve rivedere la sua scelta». Altrimenti Diliberto paventa imminenti disastri elettorali. «Le elezioni amministrative sono alle porte e Prodi, con il suo atteggiamento, rischia di indebolire l'esecutivo e la sua stessa leadership». Non saranno lui e il suo partito, tuttavia, a scavare la terra sotto le radici dell'Unione. «Non ne ho la minima intenzione», ha assicurato. Aggiungendo poi che Prodi non deve «accettare» i voti della Cdl sull'Afghanistan, perché sarebbe «un gravissimo vulnus» (lesione di un diritto). Dunque? Che deve fare il «povero» Professore? Diliberto non ha dubbi: «Spetta al governo metterli in condizioni di non votare mai con noi. È questa la sfida che lanciamo. E attendiamo risposta». Morale? Il premier si deve piegare altrimenti per lui saranno problemi. Non è un ricatto, certo, come sottolinea pure Diliberto. Ma un aut-aut sì. E anche se giura di non volere la fine del governo Prodi, il segretario del Pdci sembra dimenticare la «lezione cilena». Perché, fatti i dovuti ed enormi distinguo, il governo socialista di Allende fu rovesciato da un golpe dopo essere stato logorato per mesi anche dagli attacchi dell'estrema sinistra.