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La Quercia scalpita ma il premier prende ancora tempo

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No al riformismo se questo significa «accontentare tutti». Cerca così di parare il colpo, Romano Prodi. Un colpo difficile, però. Sferrato direttamente dalla poltrona più alta del Botteghino. Un ultimatum del segretario dei Ds, Piero Fassino, che va stretto all'estrema sinistra della coalizione e che ha gettato nell'impasse lo stesso premier. «Serve un colpo d'ala - aveva sostenuto ieri il leader dei Ds - un grande salto di qualità. Il nostro riformismo si misura nei prossimi cinque mesi. È ora di mettersi in gioco e di rischiare tutto sulle riforme». Del resto, dopo una Finanziaria da 35 miliardi di euro, la più impopolare della storia della Repubblica, un partito democratico che sembra finito ancor prima di iniziare, l'unica via per «salvare» il salvabile, resta quel pacchetto di riforme annunciato a gran voce in campagna elettorale ma che provoca spaccature difficilmente sanabili soltanto quando se ne inizia a parlare. La fuga dai Ds sembra inesorabile, sia vestro sinistra e soprattutto verso destra, il partito è in affanno, il segretario è sotto tiro. Fassino prova a reagire e alza il tiro e l'ultimatum del principale partito della coalizione è un segnale di pesnate insoddisfazione. Prodi incassa ma non segue, gira l'attacco - come suo solito - quasi in una frase a suo favore ma non promette nulla, non si lancia nella rincorsa come se volesse far cadere tutto lì perché gli alleati più fedeli non vogliono nessuna svolta riformista: «È un sostegno forte al governo - dice convinto il premier - che ha di fronte un orizzonte di cinque anni come i programmi riformisti seri dei governi seri. Se per riformismo si intende accontentare tutti - sottolinea Prodi - allora non è più riformismo. Con questa Finanziaria abbiamo fatto delle scelte, abbiamo avuto delle tensioni, ma è molto bello vedere adesso che quando si cominciano a fare conti come sulle pensioni, quelle che erano tensioni e avversità si sono trasformate in approvazioni». Deve essere insomma sfuggito al premier il passaggio, pure fondamentale, dell'appello di Fassino: «Senza le riforme la Finanziaria perde di senso - aveva chiarito il segretario diessino - a settembre non potremo ripresentarci con un'altra Finanziaria da 35 miliardi. Il Paese non capirebbe. Per questo i prossimi mesi saranno decisivi, avviato il risanamento, gli elettori si attendono da noi le risposte che Berlusconi non è stato in grado di dare in cinque anni di governo». Ma se Romano Prodi prova a schivare il colpo e a mantenere la calma, sono più espliciti gli esponenti della sinistra radicale nel frenare il furore diessino. Il capogruppo di Rifondazione comunista al Senato, Giovanni Russo Spena, va oltre le buone maniere e definisce Fassino un «estremista di centro». «Parlano senza conoscere la realtà - commenta il presidente dei senatori di Prc - i cosiddetti riformisti hanno creato un mondo virtuale che non tiene conto delle emergenze sociali. Quella di Fassino la si può definire una posizione di estremismo di centro, d'altro canto i moderati in questo momento forzano perché si trovano davanti un fronte molto ampio che chiede su tutto equità». Così, la sinistra radicale non ci sta ad ultimatum e diktat sul pacchetto di riforme che è stato già discusso e messo nero su bianco nel lunghissimo programma elettorale. Ma i tempi non sono l'unico ostacolo da superare. A dividere a mettere in crisi la già provata compattezza della maggioranza sono anche le «priorità» da dare alle singole riforme. Un altro ostacolo, insomma. Se la parte del centro moderato, come l'Udeur, spinge sulla riforma elettorale, i Verdi puntano i piedi, invece, sulle questioni sociali e ambientali, i socialisti chiedono priorità non sul modello elettorale ma sul sistema di aggregazione delle coalizioni, sollecitando prima di tutto una riforma sui regolamenti parlamentari. A dare manforte al segretario diessino è però la Margherita, che condivide la necessità di dare sin da subito una forte spinta riformista. Possi

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