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Ma il centrodestra lasciò spazio alla sinistra sconfitta

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15 maggio 2001. Quarantotto ore dopo la vittoria alle elezioni politiche, Gianfranco Fini annuncia una rivoluzione in Rai: «Presto faremo i nuovi vertici». In quel momento il vicepremier in pectore non può immaginare il futuro. E cioè che ci sarebbero voluti undici mesi per sfrattare le nomenclature della sinistra dalla tv pubblica e piazzare una manciata di propri uomini. Invece è andata proprio così. Oggi il governo di Romano Prodi dispone di Viale Mazzini come meglio crede, pur non avendone la maggioranza. Cinque anni fa, il centrodestra impiegò un anno prima di incasellare un direttore amico in una testata Rai. Storia paradossale, ma vera. Che parte proprio quel 15 maggio 2001. La metaforica lettera di licenziamento del nuovo editore politico colpisce soltanto la coscienza del consigliere d'amministrazione Alberto Contri, quota Forza Italia. «Sono pronto a dimettermi», dice. È il solo. I consiglieri di centrosinistra non ci pensano proprio. Vittorio Emiliani, quota Ds (che pure alcuni mesi prima aveva assicurato che in caso di vittoria di Berlusconi se ne sarebbe andato) se ne infischia. «Il mandato del cda Rai scade nel febbraio 2002», manda a dire a Fini. Ha ragione lui. La Casa delle Libertà per molti mesi sarà costretta a convivere con i vertici Rai nominati dal precedente governo dell'Ulivo. All'inizio, però, la destra prova una manovra di interdizione. Si vede uno spiraglio. Dicono che il consigliere Balassone abbia portato via i suoi libri da Viale Mazzini e che il collega Contri sia stato assunto da una multinazionale. Roberto Zaccaria, numero uno della Rai ulivista, annuncia: «Non ho mai pensato di restare presidente a vita». A fine maggio circolano pure i primi nomi per il turn over. La rosa è infinita. Dentro ci finiscono pure Emma Marcegaglia e Jas Gawronski. Ma è un fuoco di paglia. A questo punto Silvio Berlusconi denuncia: «La Rai è occupata militarmente dal governo precedente». Come dargli torto. È il 23 maggio. Una settimana dopo vengono eletti i presidenti delle camere. Sono Pier Ferdinando Casini e Marcello Pera. A loro, secondo la vecchia legge, spetta il potere di nomina del cda Rai. I vertici del centrodestra attendono un gesto di distensione da Viale Mazzini. Ora ci sono i due nuovi referenti politici della televisione pubblica. Le dimissioni si imporrebbero. Non foss'altro che per una sorta di gentlement agreement. E invece niente. 6 giugno 2001. A Milano un capannello di giornalisti assedia Roberto Zaccaria. «Rimarrà presidente Rai?», è la domanda. «E perché no?», la risposta. Da quel momento il placido professore di diritto costituzionale abbandona gli accademici freni inibitori. Un anno dopo lo troveranno abbarbicato su un tetto mentre arringa la folla dei girotondi di Nanni Moretti e Pancho Pardi. Intanto, però, fa sapere al governo che da quel momento in poi sarà «il paladino della Rai libera». 27 giugno 2001. Prime nomine dopo le elezioni. Logica vorrebbe un riequilibrio politico. E invece il centrodestra rimane a bocca asciutta. La direzione di Rai 1, rimasta vacante, viene affidata ad interim al direttore generale Claudio Cappon, area Margherita. Quella del Tg3 va ad Antonio Di Bella, giornalista gradito ai Ds. Due giorni dopo, Luca Barbareschi attore e showman vicino ad Alleanza nazionale, attacca i vertici Rai: «Mi pagano, ma non mi fanno lavorare». Passa l'estate. Marcello Pera, presidente del Senato, ci rinuncia: «La questione della Rai si affronterà alla scadenza del mandato dell'attuale Consiglio d'amministrazione. Non vedo nessuna ragione di precipitare gli eventi». Così sarà. Il centrodestra attende pazientemente fino al 22 febbraio 2002 per insediare il nuovo vertice della televisione di Stato. Per i direttori di testata, invece, ci vogliono altri due mesi. 16 aprile 2002. È passato quasi un anno dalla vittoria elettorale. La Cdl finalmente può vantare una direzione amica al Tg1. Ma piega la testa di fronte alla cessione in blocco della terza rete alla sinistra. Più altre direz

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