«Lo affido nelle mani del Signore»
Vorrei dire a Welby che gli voglio bene, che prego per lui, che gli sono vicino in questo momento di passaggio. Tutto il resto sono soltanto chiacchiere che non mi interessano. Non mi riguardano i commenti di parte, non sono interessato a prendere le difese di una qualche posizione. Vorrei soltanto pregare per Welby e essergli in questo modo vicino. In questo momento penso a lui e lo immagino davanti al Signore e rispetto a questa cosa credo siano necessari esclusivamente il silenzio e la preghiera». A parlare, a caldo, a poche ore dalla morte di Piergiorgio Welby avvenuta dopo che il medico Mario Riccio ha deciso di staccargli la spina del respiratore che lo teneva in vita, è il cardinale Ersilio Tonini, arcivescovo emerito di Ravenna-Cervia, porporato che più di tutti ha contribuito a portare la testimonianza della sua esperienza sacerdotale in tante trasmissioni televisive, per le quali è diventato una delle figure più conosciute e popolari della Chiesa in Italia. Ersilio Tonini è apparso sereno, quasi contento di poter dare la sua testimonianza su una persona, Piergiorgio Welby, che egli sente essere un amico, una persona che sente vicina anche per il fatto che, qualche tempo, fa fu lo stesso Welby a entrare in rapporto con il porporato nativo di Centovera di Sangiorgio Piacentino, attraverso una lettera fatta pervenire a casa del cardinale. Lei ha conosciuto Welby? «In un certo senso posso dire di averlo conosciuto. Qualche tempo fa Welby mi scrisse una lettera molto scherzosa e anche pungente in merito ad un mio articolo uscito su un quotidiano. Dissentiva da quanto avevo scritto. Eppure, nella sua lettera, mi sembrava volesse comunque parlare con me, avere un dialogo, cercare un rapporto direi quasi di amicizia e non era per nulla risentito delle mie parole. La sua era una lettera ironica ma anche gioiosa. In queste ore sono andato a rileggere quella lettera e mi è sgorgato dal cuore un afflato di tenerezza per lui. Ecco, tenerezza è il sentimento che provo per Piergiorgio Welby in questo momento. Ora ritengo che non sia arrivato il momento di esasperare i giudizi intorno a quanto è capitato, ma soltanto di essere consapevoli che, come diceva Sant'Agostino, innanzi a Dio unico testimone sarà la nostra coscienza. Ed è vero. È così: Dio solo ci conosce nel profondo, fin dentro l'intimo di noi stessi e ci ama incondizionatamente». Cosa dire del medico che ha deciso di staccargli il respiratore e di coloro che in queste settimane si sono battuti perché a Welby fosse concesso di morire? Si è trattato di un omicidio a suo avviso oppure no? «Vorrei su questo punto sospendere il giudizio. Non voglio dire nulla in merito al gesto compiuto dal medico e da quanto hanno fatto le persone che volevano soddisfare le sue richieste. Credo che in questo momento, e ci tengo a ribadirlo con forza, siano necessari e d'obbligo soltanto il silenzio e la preghiera. Anche perché l'intimo di Welby, come quello di ogni uomo, lo conosce soltanto Dio il quale ama ogni uomo senza alcuna preclusione. Ora Welby è davanti a Dio. E un Padre quando sta davanti a suo figlio ha interesse soltanto al suo bene». Nelle scorse ore il cardinale Javier Lozano Barragan, "ministro della salute" del Vaticano, ha detto che sarebbe favorevole ad una legge che permetta a chi lo desidera di rinunciare all'accanimento terapeutico. E su questo punto i pareri sembrano poter essere favorevoli nella Chiesa. Lei cosa ne pensa? «Non credo serva una legge. E comunque queste sono cose a cui innanzitutto la politica è chiamata a rispondere. Sarà il parlamento a decidere in merito ai casi di accanimento terapeutico. È chiaro che - ma non mi sto riferendo a Piergiorgio Welby - nei casi in cui la morte sia oramai certa sia normale e anche lecito accettarla senza chiedere altro alla medicina, senza accanirsi in cure inutili. Anche Giova