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Il premier pensa ad «oscurare» D'Alema, intanto la maggioranza va ancora sotto al Senato

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Sono questi i due fotogrammi che sintetizzano l'ennesima giornata difficile per la maggioranza di governo. Una giornata aperta dalle parole del premier («L'Italia continuerà a giocare questo ruolo pacificatore e animatore della vita e dell'economia del Mediterraneo») e chiusa dal monito del capogruppo dell'Ulivo al Senato Anna Finocchiaro («Mi pare necessario prendere atto di un problema politico interno all'Unione»). A rovinare l'atmosfera ci ha pensato un fatto apparentemente insignificante. Per l'ennesima volta, infatti, l'aula di Palazzo Madama ha respinto le dimissioni da senatrice del ministro della Salute Livia Turco. È la terza volta dall'inizio della legislatura e, se fino a ieri si poteva parlare di una «spiacevole casualità», oggi la cosa si è trasformata in un «caso politico». Il fatto è che, come ha sottolineato la Finocchiaro, «nella votazione immediatamente precedente la maggioranza registrava una superiorità di 14 voti». Considerato che le dimissioni della Turco sono state respinte per 146 no a 142 sì. Considerato che Formisano (Idv), Barbato (Udeur), Gagliardi (Prc) e Bruno (Ulivo) erano assenti. È abbastanza facile calcolare che c'è stato più di un «franco tiratore». Insomma qualcuno, all'interno di Palazzo Madama, non sembra affatto d'accordo con le dimissioni di Livia Turco. «C'è un problema di rispetto degli impegni assunti» dice Nello Formisano, uno degli assenti al momento del voto (anche se spiega che è rientrato «due secondi» dopo che l'Aula aveva votato e che, in ogni caso, la sua presenza non avrebbe cambiato nulla). «Fino ad oggi l'Unione ha dimostrato - continua - che nei momenti topici ha sempre avuto i numeri per far passare i provvedimenti. Quando qualcuno ha fatto venire meno la maggioranza, in questi mesi, lo ha fatto con un obiettivo esplicito. Se qualcuno, come in questo caso, lo fa senza dirlo, evidentemente, ha qualcosa da incassare». Nell'Ulivo sono ancora più brutali e puntano il dito contro i sei senatori che, esclusa la Turco, hanno un incarico nell'esecutivo: i viceministri Roberto Pinza (Economia) e Franco Danieli (Esteri, con delega per gli italiani nel mondo), i sottosegretari Filippo Bubbico e Paolo Giaretta (Sviluppo economico), Beatrice Magnolfi (Riforme e all'Innovazione nella pubblica amministrazione) e Gianni Vernetti (Esteri). «Qualcuno tra loro - dicono - non vuole dimettersi da senatore. Per questo rinviano sine die le dimissioni della Turco. Perché sanno che, fino a quando non si supererà questo "scoglio", nessuno potrà dire loro: scegliete, o state al governo o state al Senato. Ha ragione Anna (Finocchiaro, ndr), questo è un problema politico, chi ha la possibilità di farlo deve intervenire per richiamarli all'ordine». Peccato che chi ha questa possibilità, il premier Romano Prodi, attualmente sia impegnato in altre attività. La sua preferita, al momento, sembra essere quella di oscurare il ministro degli Esteri Massimo D'Alema. Così ieri Prodi si è recato a Beirut dove ha di fatto raccolto i frutti dell'opera diplomatica che il ministron degli Esteri ha tessuto in questi mesi sul nodo del conflitto arabo-israeliano. Uno «schiaffo» che il vicepremier non avrebbe affatto gradito. Al Botteghino c'è chi giura che proprio queste continue interferenze avrebbero convinto D'Alema a cambiare linea rilanciando la sua «azione politica». Terreno fertile per questo «rilancio», la discussione attorno alla costruzione del nuovo Partito Democratico. Il «lider Maximo» non ha nessuna intenzione di lasciare carta bianca a Prodi, Rutelli e Fassino. Per questo ha iniziato una manovra di accerchiamento appoggiando la «fronda popolare» all'interno della Margherita, rilanciando il ruolo del partiti nella costruzione del nuovo soggetto e strizzando l'occhio alle minoranze interne alla Quercia (è di ieri un'intervista all'Unità dell'«ex dalemiano» Nicola La Torre che è di fatto un appello a Mussi affinché ripensi le proprie pos

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