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«L'Italia non aiuterà i cinesi sfruttati dal regime»

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Il dissidente: «La visita del vostro premier non cambierà niente. Pensano al business»

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Harry Wu è un uomo, purtroppo tra milioni di cinesi, che ha subito e patito le sofferenze dei Laogai, i gulag cinesi. Parla lentamente, nella memoria ha ancora stampati perfettamente gli anni, 19 per l'esattezza, di prigionia. Ma non c'è commozione, solo la determinazione di chi vuole a tutti i costi combattere i campi di concentramento cinesi. Per questo ha dato vita ad una Fondazione del '92, la «Laogai Research Foundation» per ricercare e diffondere notizie sui Laogai. E ha accettato in questi giorni l'invito di Azione Giovani per raccontare la sua storia alla settima festa del movimento. Signor Wu, mentre lei è in Italia, il nostro presidente del Consiglio, accompagnato da un centinaio di imprenditori è in visita al suo Paese. Che si attende? «Niente». In che senso? «Cosa vuole che mi aspetti, e soprattutto cosa dovrei aspettarmi. Si parlerà solo di questioni economiche, senza alcun riferimento ai veri temi, cioè quelli dei diritti sociali oppure del diritto internazionale. La verità è una sola: quello che interessa oggi alla Cina e agli altri paesi sono soltanto gli affari». Non pensa di essere un po' troppo fatalista? In fin dei conti le organizzazioni internazionali da tempo denunciano i crimini in Cina. «È proprio questo il punto. Le organizzazioni internazionali, ma non i Paesi. Soltanto gli Stati Uniti con una risoluzione hanno cercato di frenare l'importazione dei prodotti del lavoro forzato. Ma la sa una cosa?» Che cosa? «Questa risoluzione non è applicata e quindi il commercio dei prodotti fatti con lo sfruttamento di uomini, donne e bambini continuerà. Siamo di fronte ad un giro di affari enorme. Alle multinazionali non interessa che le produzioni cinesi siano fatte dai detenuti dei Laogai. Le imprese contrattano con il governo comunista i livelli di produzione e poi pagano». Un sistema creato sulla pelle di milioni di cinesi? «Sì. Senza alcuna tutela dei diritti civili ed umani, senza diritti sindacali. Un sistema perfetto per i grandi magnati dell'economia che vogliono arricchirsi senza scrupoli». E la tanto celebrata liberalizzazione del mercato? «C'è stata ma solo per chi comanda. In Cina si è creata una situazione paradossale nella quale le autorità politiche ed economiche coincidono. I burocrati del partito regolano non solo il sistema politico e sociale ma anche quello economico. Una situazione davvero assurda». Signor Wu, torniamo alla questione dei diritti. Proprio ieri altri due vescovi sono stati arrestati. Un fenomeno che sta diventando sempre più preoccupante... «La persecuzione contro i cattolici è una delle cose più spietate di questo regime. Ho trascorso 19 anni in un Laogai solo perché cattolico e figlio di un banchiere. Sono stato costretto a lavorare quasi sedici ore al giorno solo perché cattolico. E tutto questo non sembra avere fine». Quando è stato imprigionato? «Era il 1960 e mi trovavo nella mia università. Mi fecero un processo sommario nella palestra e poi un poliziotto mi arrestò, senza che potessi dire una parola a mia difesa. Arrestato perché cattolico e quindi per loro di destra, reazionario. Costretto alla rieducazione a vita". Ma alla fine è uscito? «Dopo a morte di Mao. Si allentò la morsa e quindi fui liberato. Poi nel 1985 raggiunsi mia sorella, che da 1949 viveva negli Stati Uniti. E lì ho trovato a libertà. Quella vera». Da allora è più tornato in Cina? «Sì, quattro volte. E alla quarta mi volevano di nuovo arrestare, per ben 15 anni». E che cosa è successo? «Ormai ero un cittadino americano e la pressione del governo Usa e quella internazionale hanno permesso di evitare l'arresto e di ritornare in patria». Quindi stavolta gli Stati non sono rimasti a guardare? «Stavolta. Ma quanti ancora dovranno soffrire, quanto tempo dovrà ancora passare prima che l'ultimo Laogai sia chiuso? Ho cercato di convincermi in tutti questi anni della bontà del comunismo. Ma non ci sono riuscito. Ho tentato di trovare una ragione per quello che mi hanno fatto. Ma mi rispondo che non c'è ragione per quello che hanno fatto

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