La privatizzazione ha favorito il mercato ma non l'azienda
L'addio ai telefonini, sull'onda della marea di debiti che rischia (va?) di sommergere un gruppo dell'importanza di Telecom Italia, è la sconfessione di una strategia di incrocio fra fisso e mobile che pareva essere a tutti gli effetti un asso nella manica. La dissipazione di valore, dai tempi del passaggio di mano di Telecom ad oggi, è stata a dir poco importante. A Telecom Italia vanno, beninteso, tutti gli auguri del caso. Eppure, è difficile non vedere che dopo le decisioni di ieri resta un tronco senza rami, della quercia che fu. Tuttavia, queste sono valutazioni che spettano agli analisti e a chi, in quell'impresa, ci ha investito. Non è affatto detto che tutte le aziende vincano, sul mercato. Anzi, è impossibile e le correzioni di rotta, anche vistose, valgono a testimonianza della creatività del management, che starebbe appunto nel prevedere l'andamento dei mercato. È possibile che la trasformazione di Telecom in una «media company», per usare una dizione cara al dibattito di questi giorni, sia ben trovata ed arrida a futuri successi. Ancora, auguri. Quello che non si può e non si deve dire, però, è che la privatizzazione della telefonia in Italia sia stata un fallimento. «Nata male», le sue sorti furono risollevate dalla scelta di Massimo D'Alema, allora primo ministro, di non interferire con l'ardimento dei «capitani coraggiosi» che ambivano a caricarsi sulle spalle il peso dell'ex Sip. La decisione di lasciar fare da parte di D'Alema resta una lodevole eccezione, in un Paese nel quale maggioranza ed opposizione non si stancano mai di benedire o maledire operazioni di mercato, che di mercato non sono mai, dovendo troppo ai loro santi in paradiso. Colaninno non è riuscito a tenersi l'azienda e uscitone (riccamente) lasciò l'ex monopolista di fronte a anni molto duri. La liberalizzazione, tuttavia, sicuramente sul versante della telefonia mobile ha prodotto benefici tangibili per il cittadino-consumatore. Che in Italia ci siano ormai due volte più telefonini che carte d'identità non testimonia che gli italiani sono ricchi: ma che la concorrenza ha funzionato bene, e gli utenti hanno saputo beneficiare di prezzi vieppiù favorevoli e possibilità via via più interessanti. Meno notevole è stato lo sviluppo di alternative per esempio nei servizi di banda larga (ad eccezione di qualche concorrente di nicchia e d'eccellenza), anche a causa del perdurante monopolio sul cosiddetto «ultimo miglio». Lo scorporo della rete dall'incumbent, nel generale spezzatino Telecom cui presumibilmente assisteremo, saprà dare vigore ad una competizione più intensa - finalmente libera dallo strapotere di chi, secondo l'autorità garante della concorrenza e del mercato, ha vistosamente abusato della propria posizione di operatore dominante. Certo, sarebbe stato meglio procedere in questa direzione ai tempi della privatizzazione, stimolando l'emergere di alternative agguerrite a vantaggio di tutti i consumatori. Ora, staremo a vedere che forma prenderà questa separazione societaria. Non c'è ragione per cui la rete non possa essere proprietà di una public company, nella quale qualunque operatore non possa andare oltre un certa quota dell'azionariato, lasciando al mercato il resto. L'acquisto della rete da parte della Cassa depositi e prestiti suonerebbe invece come una sconfitta, una sorta di rinazionalizzazione nemmeno occulta che, presentando indubbiamente il vantaggio nel breve termine della neutralità rispetto ai diversi operatori, nel lungo riporterebbe pericolosamente la telefonia nel perimetro della politica. Gli errori del passato andrebbero evitati. Anche su questo fronte potremo misurare quanto salda è effettivamente, nell'attuale maggioranza, una cultura che nella concorrenza vede un valore. E non un fastidio, che è