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di FABRIZIO DELL'OREFICE PRODI parte per la Cina.

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Perché i problemi tra i due Paesi ci sono, ma il governo perde tempo. Lo scrive senza tanti giri di parole il ministero degli Esteri che spiega come il Paese della Grande Muraglia sia «una sfida e una preziosa occasione per affrontare i nodi del sistema produttivo e organizzativo italiano che non sono stati generati dalla crescita della Cina, ma solo messi a fuoco da questa». «L'Italia è in ritardo - si legge nella nota della direzione generale Asia - e deve agire in fretta per recuperare il terreno perduto e per evitare ulteriori ripercusioni sul nostro sistema produttivo». E si suggerisce: «Di qui la necessità di una strategia articolata e multidisciplinare, da sviluppare a livello di "sistema-paese", attraverso un effettivo raccordo e coordinamento, nel rispetto di legittime competenze, esigenze operative e visibilità». Il documento sembra un'implacabile arringa d'accusa contro l'agire individualista, arruffone e confusionario della Penisola. Ed elenca le «criticità»: «Struttura produttiva italiana che tra i paesi industrializzati è la più vicina a quella dei paesi in via di Sviluppo; scarso insediamento produttivo e ridotte dimensioni delle nostre piccole e medie imprese; scarso numero di studenti cinesi in Italia (a causa dell'inadeguata promozione dell'offerta formativa italiana e di disposizioni restrittive in tema di visti studio); difficoltà ad affrontare il nascente turismo cinese (minore competitività dei tour operators italiani; problema visti Ads; obbligo del permesso di soggiorno oltre i sette giorni inesistente in altri paesi europei); pochi collegamenti aerei; insufficiente conoscenza e familiarità con il mondo cinese e altro ancora». Insomma, questo è il quadro con il quale Prodi si presenta ai cinesi. Un quadro impietoso. E anche se la nota è del 7 marzo, da quella data - tra cambio di governo, di ministro e di politica - non è stato fatto praticamente nulla. Per questo può considerarsi attuale: è l'ultimo documento pubblicato sul tema sul sito del ministero. «Le sfide alle quali Italia e Europa devono rispondere - è la sollecitazione della direzione Asia della Farnesina - hanno natura sistemica, non occasionale, e includono l'effettivo rispetto dei diritti della proprietà intellettuale, una lotta efficace alla pirateria e alla contraffazione dei prodotti, la trasparenza nei processi di produzione e norme relative, il rispetto di standard internazionali nell'ambiente, dei diritti sociali, sanitari e di sicurezza». I diplomatici della Farnesina provano a sottolineare i punti sui quali l'Italia può far leva: un forte disavanzo commerciale, un quarto di secolo di cooperazione allo sviluppo (l'Italia ha speso 1,2 miliardi di euro per aiutare lo sviluppo di Pechino), l'accordo siglato da Berlusconi due anni fa rimasto lettera morta: «La firma della dichiarazione politica congiunta nel maggio 2004 ha espresso la volontà politica di stabilire tra i due paesi un partenariato strategico, al quale occorre dare sostanza e significato». In pratica, non s'è fatto nulla. Gli uffici del dicastero si sforzano di ricordare come «il disavanzo di cui l'Italia soffre nella bilancia commerciale con la Cina dovrebbe trovare graduali forme di recupero». Siamo in ritardo, visto che Francia, Germania e Gran Bretagna sono molto più avanti: «Altri Paesi europei - si legge nel documento - presentano rilevanti disavanzi commerciali con la Cina ma sono in grado di raccogliere ritorni in altri settori, ad esempio grandi commesse nel settore della tecnologia avanzata e investimenti industriali in loco, mentre l'Italia, dove prevale la struttura delle pmi, presenta su questo fronte serie difficoltà. A tale ultimo riguardo, attraverso misure innovative di politica industriale (fiscale innanzitutto), occorrerà promuovere una progressiva aggregazione delle pmi perché le loro dimensioni non consentono oggi di competere efficacemente su mercati lontani e difficili come quello cinese». Occorre una strategia per la cattura degli investi

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