L'UNIONE SENZA PACE

In particolare la sua «minoranza» più forte in termini elettorali, rappresentata dal partito che vuole (o voleva?) rifondare il comunismo. Il suo leader ricopre oggi una carica istituzionale, molti suoi esponenti occupano poltrone parlamentari, il neo-segretario è un successore non certo «discontinuo» del subcomandante Fausto, i senatori e i deputati «ribelli» eletti nelle sue fila continuano a «minacciare quotidianamente la stabilità del governo Prodi. Il quale (anche se non lo dice e non lo dà a vedere) vive nell'incubo di un «nuovo '98», l'anno in cui venne catapultato fuori da Palazzo Chigi dal partito di Bertinotti in polemica sulla Finanziaria. Giorno dopo giorno, dalla fragile vittoria di aprile, l'«anima» rivoluzionaria e antigovernativa per definizione del Prc è venuta a galla, come la punta di un iceberg che emerge lentamente dai flutti e mette in pericolo costante il Titanic unionista. Rifondazione è diventata ormai «il partito dei no». Basta sfogliare i giornali degli ultimi mesi per verificare la sovrabbondante sequela di «niet» pronunciati dai suoi rappresentanti, mentre è sufficiente analizzare le dichiarazioni delle ultime ore del segretario e del presidente della Camera per verificare che le cose non sono cambiate. E, probabilmente, non cambieranno. Già a 48 ore dal voto, Bertinotti (ancora a capo della segreteria) lanciava un «monito» al Professore sulle grandi intese: «L'Unione deve sopravvivere in modo autosufficiente. Altre ipotesi rappresenterebbero il fallimento del governo». E chi vuol capire (Prodi), capisca. In giornata arriva anche l'annuncio della scissione interna al Prc. Il trotzkista Ferrando se ne va perché «l'ingresso del Prc nel governo segnerebbe la conclusione del ciclo di Rifondazione come cuore dell'opposizione alle politiche padronali». Il 22 sempre Bertinotti avverte che bisogna «mantenere il baricentro nei movimenti e nella società» e che «questa autonomia del partito sarà messa a dura prova dalla presenza al governo». E il deputato Salvatore Cannavò rincara la dose: «Rimaniamo dell'opinione che non esistono le condizioni per un ingresso del Prc al governo». Il partito, invece, entra nelle stanze dei bottoni. Ma si muove con stile ossimorico. I primi due «scogli» sui quali si infrange l'illusione rifondarola di coniugare rivoluzione e potere riguardano la politica estera e si chiamano Iraq e Afghanistan. Sul primo, una buona parte del Prc chiede «discontinuità» da Berlusconi e, quindi, un ritiro prima dell'autunno. Cosa che non avverrà, malgrado i minacciosi dubbi degli otto senatori «ribelli» (quattro, cioè la metà, di Rifondazione) e il monito di Cannavò, che stila una vera e propria «lista» di incompatibilità: «Nelle prime settimane dell'attività di governo - tuona - si sono addensati molti elementi di contrasto con le premesse dell'accordo elettorale: una manovra-bis all'insegna del rigore e, come afferma Padoa Schioppa, della moderazione salariale; la determinazione di Parisi a mantenere la missione militare in Afghanistan che il Prc non può assolutamente accettare e l'ipotesi di rinviare all'autunno il rientro dei soldati dall'Iraq; le dichiarazioni imbarazzanti di Prodi circa il "folklore" di Rifondazione; la commissione bioetica affidata a Giuliano Amato; il siluramento immorale della candidatura di Lidia Menapace (che chiederà di lasciare a secco i serbatoi delle Fiamme tricolori, perchè «fanno rumore e inquinano» ndr) a presidente della Commissione Difesa del Senato». Intanto al posto del subcomandante è subentrato il compagno e amico Franco Giordano, eletto con 139 consensi su 202 votanti, che mantiene un atteggiamento critico e severo nei confronti del Professore. «Noi saremo i custodi del programma di governo, che abbiamo condiviso e che è frutto di un lavoro intenso e anche l'esperienza di tanti movimenti che hann