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Dopo cento giorni è ancora a galla. Prodi può sospirare

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La sua maggioranza argillosa è ancora compatta: a colpi di fiducia l'esecutivo potenzialmente più ballerino della storia della Repubblica continua a stare a galla. Arlecchinesca com'è la sua coalizione, nonostante il continuo tiro alla fune fra sinistra radicali e le flebili, ragionevoli voci «liberal» Prodi c'è. Sarà che aveva ragione Silvio Berlusconi quando, finito di contare e ricontare i voti mancanti alla sua conferma elettorale, aveva profetizzato: questi durano, il potere gli piace troppo. Va detto che col potere i partiti al governo hanno un rapporto autenticamente simbiontico. Lo desiderano, lo conservano, ma lo usano pure. Con le liberalizzazioni previste dal suo decreto, Pierluigi Bersani ha cominciato a sciogliere i troppi lacci corporativi che soffocano il nostro Paese. Ci vorrebbero in dosi da cavallo, le liberalizzazioni, e noi cominciano ora con l'omeotopatia. Ma cominciamo. Nella politica estera Massimo D'Alema ha ritrovato un terreno di gioco familiare. Difficile negare la sua statura di statista, il senso di responsabilità, la capacità di dosare ragioni di principio e istinto tattico. È tutto da verificare, dove può portarci questa «equi-vicinanza». Senz'altro, criticabile com'è, ha un senso, una direzione. Laddove però il governo Prodi sta agendo con maggiore incisività è sul fronte fiscale. Vincenzo Visco non ha il tocco lieve del chirurgo: usa il trinciapollo. La moltiplicazione dei controlli, il rilancio della lotta all'evasione in nome dell'austerità e della pretesa superiorità morale della sinistra, sanno di anni Settanta, rispolverano un approccio dirigista e rigorista assieme alle questioni economiche, il cui unico effetto, del resto ampiamente predicibile, sarà inibire la crescita e impoverire il Paese. Tuttavia, per dirla piatta piatta, questi signori, che pure passano le giornate a litigare, stanno costruendo uno «Stato di polizia fiscale» appesi al pannolone dei senatori a vita. Ammettiamolo: i primi cento giorni di questo governo rivelano una capacità di piazzare colpi nelle buche più difficili, che forse più che ai meriti della compagine ulivista si deve all'assordante silenzio dell'opposizione. Con il centro-destra che sogna la «spallata», ma che più che altro si esercita a parlarsi addosso, è facile lavorare di fiducia e decretazione d'urgenza. C'è una dichiarazione di ieri del primo ministro che, tuttavia, è particolarmente inquietante. Prodi ha definito «davvero una bella cosa» l'annunciata fusione fra Intesa e San Paolo, dando a intendere di conoscere bene l'operazione. Sarebbe piuttosto infantile, e sbagliato, snocciolare di nuovo i nomi dei banchieri passati in processione alle primarie dell'Ulivo. Una cosa sono gli affari, altra le convinzioni personali. Non si capisce perché un banchiere non dovrebbe avere, come tutti, una qualche appartenenza politica. Tuttavia, lo scorso anno si è - giustamente - buttato giù dalla torre un governatore della Banca d'Italia perché le fusioni non le stava soltanto a guardare, aspettando che il mercato decidesse da sè, ma distingueva fra «cose belle» e altre meno. La nascita di un superpolo bancario può essere auspicabile, non così il suo battesimo a Palazzo Chigi. L'atteggiamento del governo rispetto alle vicende di mercato è troppo ambivalente: bastonate e l'utilizzo creativo di alcune norme capestro, contro gli imprenditori che non piacciono. E più di una parola buona per gli amici. Chi da anni invocava il «ritorno della politica», insomma, è stato accontentato.

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