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Ritornano alla guida del governo, della magistratura. Il loro modo di essere non è tramontato Un libro adesso li sta celebrando

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E la storia dei democristiani. Terribili democristiani. Maledetti democristiani. Morti e sepolti. E che riemergono come zombie nel video di Michael Jackson «Triller», paura. Rieccoli. Erano spariti, finiti, defunti. Scomparsi. Dimenticati. Sembravano appartenere ormai alla preistoria della politica. Macchè, rieccoli. Acclamati, ricercati. Voluti. Invocati come salvatori della patria. È tornata la loro era e la loro arena è il Senato della Repubblica. Il luogo dove ormai tutto è e non è. Dove il bipolarismo ormai è già finito e vince chi è di qua ma può stare di là, o chi era di là e adesso è di qua. Era il 29 aprile. Oscar Luigi Scalfaro presiedeva la seduta del Senato. Vigile e quasi imparziale nella sfida per la presidenza tra Giulio Andreotti (lui, l'eterno) e il «novizio» Franco Marini. Clemente Mastella il grande mattatore con i voti fatti mancare, la trattativa, i voti restituiti con la firma «Francesco». Proprio Mastellone si mise ad assistere all'ultimo spoglio in Transatlantico attraverso un maxischermo. A un certo punto gli scappò una battuta: «Mamma mia, sembra un congresso della Dc». E qualcuno dalle retrovie: «Sì, manca solo che si voti per alzata di assegno». E già, chi se la ricordava più l'alzata di assegno, il trionfo del denaro che aveva fatto più che il suo ingresso nel mondo della politica. Sostenendo e finanziando le correnti. Già, le correnti. Tutto vecchio e tutto nuovo. Visto che proprio a Palazzo Madama il governo si regge anche sui voti dei senatori a vita, tra cui figurano Emilio Colombo, Francesco Cossiga, Andreotti e Scalfaro. Tutto che ritorna. Marco Damilano, cronista parlamentare dell'Espresso, ha passato in rassegna la storia e la vita della Dc e dei democristiani («Democristiani immaginari», Vallecchi, 16 euro). E la rassegna ci ricorda quando erano lontani quei tempi e quanto stanno ritornando. Si parla, per esempio, di Dossetti e del dossettismo. E di come in fondo il prodismo ne sia una sua diretta emanazione. «Non sono mai stato democristiano, né mi sono sentito uomo di partito», diceva il monaco emiliano. Una frase che si potrebbe mettere oggi in bocca a Romano Prodi, che testimonia il suo fastidio verso i partiti e partitismi. Eppure lui, proprio lui, della Dc non è stato un personaggio astratto. Scriveva il programma della Balena Bianca con Mario Monti (che si occupava allora di economia e finanza) e Mario Baldassarri (lavoro). Ma è tutto il mondo Dc che si rivaluta. «L'ultimo baluardo del nemico è stato espugnato nel marzo del 2004, quando il faccione di Alberto Sordi è spuntato tra i banchi della libreria del cinema romano Nuovo Sacher - si legge nel libro -. Libri scelti in modo maniacale dal gestore della sala, Nanni Moretti. Il regista simbolo della sinistra e dei girotondi e di tante altre cose, che in un quarto di secolo prima, in una scena di "Ecce Bombo", aveva indicato in Sordi il nemico del popolo, il massimo rappresentante di un'Italia da disprezzare: "Ma che siamo in un film di Alberto Sordi? Ve lo meritate Alberto Sordi!"». Oggi Sordi è il simbolo della romanità e dell'italianità stessa. Con i suoi pregi, i suoi vezzi e i suoi difetti. E che dire dell'Italia dell'autostrada per eccellenza, l'Autosole, «l'Italia del "Sorpasso" che sfrecciava a tutto gas». Quell'Italia che oggi il governo vuole impedire che finisca in mani spagnole. E l'Italia dei barbutos, quelli dell'Azione cattolica, quella che andava da Roberto Formigoni al «leader, il più barbuto di tutti, Paolo Giuntella, oggi quirinalista del Tg1, all'epoca instancabile animatore di gruppi e circoli culturali». E si racconta ovviamente, lui, il divo Giulio. Fintamente criticato, autenticamente quasi celebrato: «Orecchie da pipistrello, gobba crescente - è scritto nel libro -, occhi stretti come fessure di un salvadanaio dietro le lenti, labbra sottili, dita lunghe e affusolate, Andreotti. L'immagine dell'eternità del regno democristiano». L'ode vera è destinata a Benig

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