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ALTOLÀ del mondo cattolico alla nuova cittadinanza.

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L'editoriale di ieri, fromato da giorgio Paolucci, ha già un titolo eloquente: Società senza enclave etniche». Sottotitolo: cittadinanza sì, però. Nell'articolo si spiega che è «difficile non concordare con lo spirito di questi provvedimenti. Nello stesso tempo qualche interrogativo occorre porselo». Arrivano dunque le domande: «La cittadinanza è, o dovrebbe essere, la forma giuridica di un contenuto alto, certificando l'appartenenza a una comunità e la condivisione di una serie di valori fondanti. Accadrà davvero così? L'allargamento delle maglie che viene prospettato - si legge sull'Avvenire - favorirà i processi di integrazione o rischia di dare disco verde anche a persone che vogliono semplicemente sfruttare i vantaggi derivanti dall'acquisizione di certi diritti senza sottomettersi ai relativi doveri? L'interrogativo è di rigore se si vuole governare l'immigrazione anziché subirla, trasformarla in un'opportunità anziché farla diventare una minaccia». Infatti, Paolucci, ricorda che «non possiamo ad esempio dimenticare che erano già cittadini britannici gli attentatori di origine pakistana che l'anno scorso seminarono terrore e morte nella metropolitana di Londra, ed erano cittadini francesi di origine magrebina molti dei protagonisti dei disordini nelle banlieues parigine. Naturalizzati insomma, ma in fondo "estranei"». L'editoriale del quotidiano dei vescovi rileva anche che «perché i provvedimenti sulla cittadinanza non diventino un boomerang è perciò necessario abbandonare certe visioni semplicistiche basate su un multiculturalismo automatico che, in nome del cosiddetto rispetto delle differenze, illude su un'integrazione che non può coincidere con le enclaves monoetniche». «Un terreno - conclude l'articolo - dove la costruzione di nuove forme di convivenza veda protagoniste le società civili, nel segno di uno slogan semplice ma impegnativo: patti chiari, amicizia lunga». All'interno un lungo servizio raccoglie le voci del mondo cattolico impegnato sull'immigrazione. E così, la Caritas, attraverso Franco Pittau (coordinatore del dossier statistico dell'organizzazione), fa sapere di essere soddisfatta ma con riserva: «È un ritorno al passato, infatti prima del 1992 il requisito per diventare italiani era 5 anni». Per Migrantes parla Padre Enzo Mioli: «Il diritto di cittadinanza va guadagnato. È giusto tenere paletti come la verifica di un'adeguataconoscenza della lingua e della nostra cultura. Sarebbe controproducente se la cittadinanza scattasse automaticamente». Dubbi anche dalle Acli. Il presidente Andrea Oliviero sottolinea infatti che «cambiare la modalità di accesso alla cittadinanza è sacrosanto, ma ricordiamoci che non è cosa semplice accettare per il popolo. Stabiliti i diritti, i nodi sono i doveri. Il 65% delle famiglie immigrate vuole restare in Italia. Con loro occorre tener fermo il principio che chiedere di diventare italiani è un punto di di arrivo di un percorso di integrazione. il lavoro maggiore spetta alla scuola e ai servizi alla famiglia».

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