di NICOLA IMBERTI «PENSO proprio che, alla fine, il governo porrà la fiducia.
Il presidente della commissione Difesa di Palazzo Madama traccia un'analisi molto lucida: «Se non verrà posta la fiducia mi sembra molto difficile convincere i senatori dissidenti che, al contrario, non sarebbero assolutamente disposti a far cadere il governo». Si tratta quindi di una scelta inevitabile? «Penso che occorra fare un tentativo, prima della votazione, per verificare i numeri. Il ministro Chiti e lo stesso presidente Marini cercheranno di accertare quale sarà il comportamento dei dissidenti. Se la maggioranza tiene è giusto non porre la fiducia». Secondo lei terrà? «La coalizione di centrosinistra non ha una maggioranza precisa al Senato e questo non dà sicurezze. Credo che, su provvedimenti importanti, il governo sarà sempre costretto a chiedere la fiducia. Non è una prospettiva esaltante, ma i numeri sono tali che questo è il prezzo da pagare». Non sarebbe più semplice ammettere le difficoltà e chiedere aiuto alla Cdl? «La volontà di allargare la maggioranza è un discorso politico complesso. Anche qui non si può pensare di ottenere gratuitamente l'aiuto del centrodestra. Sarebbe probabilmente indispensabile passare attraverso una crisi di governo». Insomma, il governo è con le spalle al muro? «Come dicono gli inglesi attualmente il governo è between a rock and an hard place, tra una roccia e un posto duro». E come se ne esce? «Il risultato elettorale del 9 e 10 aprile che è stato un sostanziale pareggio, invitava alla costituzione di una larga maggioranza. Tuttavia il centrosinistra aveva il diritto di fare un tentativo di governare il Paese. Oggi questo tentativo viene messo alla prova». Passata questa prova, quindi, il governo veleggerà sicuro verso la fine della legislatura? «Non credo. La coalizione deve aspettarsi una battaglia continua al Senato. Dopo l'Afghanistan un altro test importante sarà la Finanziaria ma, anche superando la manovra economica la strada non sarà spianata. Dobbiamo attenderci un test continuo». Tornando all'Afghanistan. Non crede che l'atteggiamento dei pacifisti del centrosinistra rischi di isolare il nostro Paese a livello internazionale? «Esiste una componente pacifista nella nostra sinistra che non ascolta ragioni. Dopotutto il loro ragionamento è chiaro: hanno sempre votato contro le missioni militari e adesso hanno difficoltà a giustificare a se stessi e al proprio elettorato, un cambio di opinione. È un problema di coerenza». Sì, ma la comunità internazionale ci chiede di restare in Afghanistan? «L'invio di nostri soldati all'estero ha sempre incontrato delle resistenze da parte dei partiti e dei cittadini. Certo, noi siamo in Afghanistan per partecipare ad una missione Nato su mandato Onu, non è l'Iraq. Per questo la Margherita, e la maggior parte dei Ds, non ha mai avuto esitazioni a votare il rifinanziamento». Lei ha giustamente parlato della «maggioranza dei Ds». Anche la Quercia, infatti, su questo tema ha qualche dissidente. Che peso ha questa ulteriore differenza tra Ds e Dl in chiave partito democratico? «Il mio giudizio sul partito democratico è chiaro: non si può forzare il corso della storia né farlo in maniera frettolosa. Ognuno di noi ha un'identità con radici profonde. Serve un processo di maturazione. Io capisco che Fassino dica che il Pd si deve inserire nella famiglia del Pse, lo dice per non perdere pezzi». Dovendo rivolgere un appello ai dissidenti per cercare di evitare la fiducia sul decreto Afghanistan, cosa direbbe? «Sottolineerei che l'articolo 11 della nostra Costituzione ripudia la guerra, ma apre alla disponibilità che l'Italia ceda parte della propria sovranità per partecipare a missioni organizzate dalla comunità internazionale. L'Afghanistan, quindi, non è contro l'articolo 11. Questo mi sembra il punto dirimente».