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Rivoluzionari divisi fra coerenza e fedeltà al governo

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Il deputato del Prc Francesco Caruso: «Affiderò la mia decisione ai compagni del movimento»

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Suonava così il ritornello di una canzone «di piazza» diffusa tra militanti e simpatizzanti del movimento targato 1977. E negli Anni Settanta l'essere più o meno, davvero o per finta, in un modo o nell'altro «rivoluzionario» rappresentava un primato ambito da molti. Un discrimine fra i «veri compagni» e gli opportunisti-avventuristi-qualunquisti-reazionari. Il deputato di Rifondazione comunista Francesco Caruso ha 32 anni. Nel '77 ne aveva tre. Ma il mito-dovere di essere rivoluzionario a tutti i costi contagia ancora lui e molti altri suoi compagni della cosiddetta «ala radicale» dell'Unione. Tanto da accettare il «rischio» (?) di far cadere il governo di centrosinistra per aprire la strada a una grosse koalition, a un rimpasto con l'Udc a Palazzo Chigi o, addirittura, al ritorno del Cavaliere in sella all'esecutivo. Un atteggiamento anacronistico e luddista che fa dire a Gino Strada: «È cosa giusta e bella far cadere il governo per dire no alla guerra». Caruso sembra più attento alla realtà che alla coerenza rivoluzionaria (che non si sa mai dove possa portare, vedi il tragico epilogo delle Brigate Rosse). Ma la sua coscienza è un ostacolo sulla strada della realpolitik. Così, per superare la lacerante dicotomia, sul voto di oggi alla Camera per il rifinanziamento della missione italiana in Afghanistan ha deciso pilatescamente di far decidere ad altri. A chi? Al movimento, naturalmente. «Sul voto alla guerra, rimetto la decisione al movimento. Deciderò insieme ai compagni dei centri sociali campani questa sera nel corso della riunione al centro sociale Depistaggio», ha detto ieri all'Ansa. Si tratta, ha aggiunto il parlamentare del Prc che secondo il Corriere è diviso fra «l'ira di Bertinotti e le uova di Casarini» , di «una decisione complessa, resa ancor più difficile dall'escalation di violenza che insanguina il Medio Oriente in queste ore. Dinanzi alla tragedia di un'occupazione militare, dinanzi alla scia infinita di lutti e di sangue, bisogna avere il coraggio di non rimanere incastrati nel realismo politico: c'è una questione di coscienza e di etica che trascende dalle contingenze della politica». Una posizione, insomma, «senza se e senza ma». Una frase che fa il paio con quella di Strada e con l'interrogativo espresso dall'ex metalmecccanico reggiano e senatore del Prc Claudio Grassi, uno degli otto «ribelli» che promettono di votare «no» sull'Afghanistan a Palazzo Madama se il governo supererà lo scoglio di Montecitorio: «Credo nella rivoluzione, come posso sostenere la guerra?». Ma (c'è sempre un «ma»), cos'è che distingue la guerra dalla rivoluzione? Il fine, naturalmente. Mao, Lenin, Stalin e anche Pol Pot lo dicevano chiaramente. E anche le Br giustificavano nelle loro coscienze e agli occhi del movimento gambizzazioni, rapine e omicidi allo stesso modo. Poi si è visto che il fine corrispondeva ai mezzi, ne era addirittura «figlio» e naturale conseguenza. E che dalla rivoluzione è nato l'orrore del socialismo reale. E che non è un feticcio, un totem o monolite. È una conquista quotidiana.

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