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Un mese fa dissero no a nuove truppe a Kabul

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Ma Pdci, Verdi e Rifondazione costrinsero D'Alema e Parisi a fare subito marcia indietro

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Era il 10 giugno e il segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer in un'intervista al Corriere della Sera lanciava la sua proposta: l'Italia invii più truppe e più aerei in Afghanistan. «Bisogna considerare le ragioni per cui siamo lì - era il suo ragionamento -. Non dimentichiamo che la Nato, fin dall'inizio, opera sotto mandato dell'Onu». Niente di strano quindi, se l'Alleanza Atlantica richiede un maggiore impegno del nostro Paese a Kabul, in fondo, era il discorso del segretario generale De Hoop Scheffer, «l'Italia è lì per una causa giusta». Peccato che non la pensasse così l'ala radicale dell'Unione che, da allora, non ha perso occasione per attaccare la missione italiana in Afghanistan arrivando addirittura a chiedere il ritiro immediato delle truppe. Al punto che, quando il ministro degli Esteri Massimo D'Alema, avanzò la possibilità di dare seguito all'appello della Nato (le truppe inquadrate nella missione Isaf, disse, potranno anche avere «un certo incremento in relazione alle nostre possibilità»), Verdi, Pdci e Rifondazione imposero uno stop immediato. Così, il capogruppo alla Camera dei Verdi Angelo Bonelli arrivò addirittura ad invocare un vertice di maggioranza «qualora fosse confermato l'orientamento del governo». Dello stesso parere il segretario di Rifondazione Comunista Franco Giordano: «Il Prc non può accettare la logica del rilancio del conflitto come chiede il segretario generale della Nato». E mentre Elettra Deiana (Prc) avvertiva D'Alema («Mentre lui dice che non è in discussione la missione noi diciamo il contrario. Non devono esserci cambi o incrementi con reparti speciali, ma al massimo un congelamento della situazione»), il responsabile esteri del Pdci Iacopo Venier, applaudiva la decisione di fare un bilancio di ogni singola missione caso per caso. «Ci consetirà di spiegare - diceva - come secondo noi operazioni come quelle afghane siano incompatibili con il programma elettorale con cui l'Unione si è presentata al voto». Ma la polemica non si fermò lì. Dieci giorni dopo (il 20 giugno) rispondendo al ministro della Difesa Arturo Parisi che aveva rilanciato l'ipotesi di inviare nuove truppe, il capogruppo del Pdci al Senato Manuela Palermi attaccava: «Se capisco bene la dichiarazione del ministro Parisi, il governo vuole aumentare il numero dei militari in Afghanistan. La nostra contrarietà è netta. Se il governo vuole tenere unita la coalizione ed essere interprete della stragrande maggioranza del popolo italiano, farà bene ad intraprendere un cammino di pace». E così via fino ad oggi. A nulla sono servite le spiegazioni di Parisi e D'Alema che hanno sempre ribadito che in Afghanistan l'Italia sta operando sotto mandanto dell'Onu. A nulla sono serviti gli ultimatum dell'ala riformista che ha chiesto alla sinistra radicale di non rompere la coalizione di governo. Il decreto di rifinanziamento della missione in Afghanistan arriva nella Aule parlamentari mentre una fetta importante dell'Unione continua a parlare di «missione di guerra» e di «exit strategy». C'è anche chi, come il chirurgo pacifista Gino Strada, è arrivato a dire che, a Kabul, si stava meglio con i talebani. Oggi che l'Italia è pronta ad andare in Libano con l'Onu, però, anche i pacifisti applaudono.

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