La Lega teme
Poche, secche parole. Nello stile di Roberto Calderoli. Abituato a far parlare di sé. A far notizia. Come quando davanti a Clemente Mimun aprì la camicia per mostrare le vignette anti-Maometto. Stavolta non ci sono disegni da mettere in mostra. Ma la notizia rompe gli schemi. Dentro, a Montecitorio, si festeggia. La maggioranza gioisce per l'elezione del «presidente di tutti» e l'opposizione mastica amaro. Ma lui, senatore della Repubblica ed ex ministro, lancia la sua offensiva. Non ci sta a vedere Napolitano sul Colle. Non ci sta a dare il riconoscimento all'ottuagenario esponente diessino. Un attacco a sorpresa, perché mai prima d'ora in Italia un Capo dello Stato era stato messo in discussione da un parlamentare. Che non ci fosse feeling con il migliorista era cosa risaputa. Dalle prime voci di candidatura la Lega aveva cercato di mettersi di traverso all'elezione di Napolitano. Disposta addirittura a mettere in crisi la Casa delle Libertà qualora il centrodestra avesse deciso di votarlo. Troppo per la Lega. Troppo sostenere chi, così dicevano in quei giorni i «padani», da responsabile del Viminale aveva assistito alle perquisizioni di via Bellerio, sede della Lega Nord nel lontano 1996. Le immagini di Roberto Maroni riverso fuori in terra erano ancora troppo vive per suggellare la pace. Questo mai. Da qui il mancato riconoscimento sostenuto dalle presunte irregolarità nel recente voto al Senato. Perché per l'ex consigliere comunale della Lega Lombarda di Bergamo: «Se dovessero andare in porto le verifiche sui 70 parlamentari sub sudice per le irregolarità del voto, tutto può saltare». Tutto chiaro. Non un colpo di sole. Non un'esternazione estemporanea. Ma un mancato riconoscimento fondato sui sospetti di un voto irregolare. Davvero tutto qui? Solo un problema di legittimità legato al voto del 9-10 aprile? O c'è altro? In realtà a dividere la Lega da Napolitano non è la legittimità del voto ma le riforme. Ed in particolare quella costituzionale: la devolution. Un tema molto caro ai leghisti, su cui hanno investito tutta la passata legislatura e la loro recente campagna elettorale. Ai padani non è sfuggito che il prossimo 25 giugno si torna a votare: c'è il referendum confermativo e la Lega Nord non vuole assolutamente vedere affossata la sua riforma. Non ci sta a vedere andare all'aria la riforma tanto sudata. E quali garanzie offre un presidente della Repubblica fortemente contrario alla riforma? Quale prospettiva di vittoria? Si sa il peso di un intervento pubblico di un presidente della Repubblica è enorme sui cittadini. E Napolitano ha sempre dimostrato di non essere favorevole alla nuova legge costituzionale. Non ha mai nascosto di vedere con rimpianto l'abolizione della vecchia riforma ulivista, costruita, secondo lui, nel pieno rispetto dei principi della democrazia italiana e frutto del «metodo della paziente ricerca di una larga intesa». Ora con lui al Colle tutto è più difficile. Tanto difficile. E basta prendere uno dei suoi primi interventi al Senato come senatore a vita, appunto contro la devolution, per capire i rischi che corrono i leghisti. Era il 15 novembre dello scorso anno. L'allora senatore fu chiaro dicendo che il «referendum doveva sgombrare il campo dalla legge che ha provocato un così radicale conflitto». Ma fu ancora più netto quando spiegò che la consultazione referendaria non era «tra passato e futuro, tra conservazione e innovazione, ma tra due antitetiche versioni della riforma dell'ordinamento della Repubblica». Da un lato, la riforma della CdL, «la personalizzazione della politica e del potere», dall'altro, quella dell'Ulivo, un'idea coerente ed efficace del riassetto dei poteri e degli equilibri istituzionali. Da qui la conclusione: una riforma «globale della parte II della Costituzione», imposta dal centrodestra con «il ricorso alla forza dei numeri della sola maggioranza». Così si spiegano le preoccupazioni della Lega. Quale perquisizione di via Bellerio. Quale legittimità del voto. La paura che serpeggia tra i padani è qu