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La carica dei mille per eleggere il Presidente

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Oggi alle quattro il primo voto. Senatori, deputati e delegati regionali scelgono il capo dello Stato

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Si tratta di 315 senatori, più i sette di diritto e a vita; di 630 deputati e di 58 delegati regionali, 3 per ogni Regione tranne la Val d'Aosta che viene rappresentata da uno soltanto. Nei primi tre scrutinii, fissati uno per oggi e gli altri due per domani, per l'elezione è richiesto il quorum dei due terzi dell'Assemblea, pari a 674 voti. Dalla quarta votazione, prevista eventualmente per mercoledì, il tetto da raggiungere è quello della maggioranza assoluta, pari a 506 preferenze. In partenza l'Unione dispone di 541 voti: 158 senatori, 348 deputati e 35 delegati regionali, compreso il rappresentante della Val d'Aosta. Nel dato sono compresi anche i presidenti della Camera Fausto Bertinotti e del Senato Franco Marini. La Cdl ha invece un pacchetto di 460 suffragi: 156 senatori, 281 deputati e 23 delegati regionali. A queste cifre occorre aggiungere i sette senatori di diritto e a vita (anche se Giorgio Napolitano è iscritto al gruppo dell'Ulivo), il senatore Lorenzo Pallaro e il deputato Riccardo Merlo eletti nella lista Associazione Italia-Sud America. Per quanto riguarda l'elezione è di Carlo Azeglio Ciampi e di Francesco Cossiga il record di rapidità: in entrambi i casi fu sufficiente una sola votazione (rispettivamente il 13 maggio 1999 ed il 24 giugno 1985) per essere eletti al Quirinale. Tutti gli altri presidenti (a parte il primo capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola) ebbero bisogno di diversi scrutini. In alcuni casi ci furono votazioni plebiscitarie, in altri si raggiunse il quorum per una manciata di voti. Lo scarto minimo sul quorum per l'elezione di un presidente della Repubblica è quello che incoronò Giovanni Leone alla ventitreesima votazione, appena 13 voti. Segue il margine che consentì ad Antonio Segni di salire al Quirinale al nono tentativo, 15 schede. Ma la storia dell'elezione a Presidente della Repubblica è piena anche di «grandi» della politica che non sono riusciti a farsi eleggere. Ne sa qualcosa Amintore Fanfani. Candidato ufficiale sia nel '64 sia nel '71, dovette ritirarsi di fronte all'impossibilità di mettere insieme, in primo luogo, i voti dei suoi compagni di partito. Ma anche Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani e Aldo Moro dovettero mettere da parte le loro ambizioni verso il Colle e cedere la strada ad altri. Erano gli anni della Dc partito-Stato, della grande «balena bianca» che, nell'impossibilità di una alternativa di governo, racchiudeva nel suo interno anime politiche di segno opposto; anime che finivano inevitabilmente con lo scontrarsi nei momenti delle grandi scelte. E il Quirinale tra queste grandi scelte è senza dubbio la più rilevante. Anche per questo, al Quirinale, sono arrivati sempre esponenti autorevoli, ma mai dei leader di partito, con l'eccezione di Giuseppe Saragat, segretario del partito socialdemocratico. Il timore di rafforzare una componente democristiana rispetto alle altre, o anche di trasformare il Quirinale in un centro di potere sostanziale, ha sempre suggerito ai «grandi elettori» di bocciare le candidature dei «grandi».

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