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Il «comunista» che piace alla destra

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E il suo carattere chiuso non lo aiuta ad apparire «amabile». È un «realista assoluto», non ha pregiudizi e rifugge il moralismo, tanto da guadagnarsi appellativi come «Machiavelli in salsa liberal» e da attirarsi accuse di cinismo e ambiguità. È un togliattiano e un berlingueriano «di ferro» ma nell'89 fu uno dei dirigenti che, insieme con Occhetto, «traghettò» il Pci dal fiume in secca del comunismo verso l'oasi democratica sorta all'ombra della Quercia. Ha cominciato a fare politica a 14 anni, quando molti suoi coetanei pensavano soltanto al pallone e ad altri svaghi, ed è cresciuto nel partito, imparando a conoscerne a fondo i meccanismi. Un'esperienza che lo rende molto più di altri capace di gestire la macchina delle istituzioni. È colto, raffinato, efficientista. Non ha tabù, nemmeno quello costituzionale. È considerato uomo del compromesso e della trattativa, che in politica suona come un complimento. E c'è un solo sentimento che di certo non si è mai attirato: l'indifferenza. Nato nella Capitale il 20 aprile 1949, sposato con Linda Giuva e padre di due figli, Massimo D'Alema, detto anche «baffino», «Aramis» o «il Migliorino», è in questi giorni protagonista involontario di uno strano fenomeno trasversale. La sua candidatura alla presidenza della Repubblica ha suscitato reazioni che percorrono obliquamente l'arco parlamentare. A sorpresa. Ci sono esponenti del centrosinistra che non lo vogliono al Quirinale ed esponenti del centrodestra che lo vorrebbero ma non lo dicono. Giornalisti come Feltri che lo giudicano «il male minore». Altri, come Ferrara, che «propende» per il presidente dei Ds sul Colle «dal punto di vista di Berlusconi e della metà Italia» che ha votato la CdL. Per l'«arcitaliano» D'Alema ha due qualità indispensabili: l'autonomia e il coraggio e «negozierà sempre con chi rappresenta il 50% degli italiani». Un criterio per capire «che cosa c'è sotto» può essere quello di distinguere apparenza e sostanza, parole e intenti. L'«apparenza» è che l'Unione lo ha candidato per il Quirinale, sebbene ci siano veti palesi (quello della Margherita e dell'Udeur che si fanno portatori della volontà Vaticana e della Rosa nel Pugno, che teme «inciuci») e latenti (Fassino non vuole cedere il controllo del partito e altri dirigenti Ds non nascondono l'antipatia per il personaggio). La sostanza è che Prodi, dopo essersi assicurato la «fedeltà» di Bertinotti con la nomina alla Camera, avrebbe interesse a mettere D'Alema alla Farnesina e magari anche a farlo vicepremier per scongiurare un «nuovo '98». L'apparenza è che Berlusconi si oppone facendo balenare scenari alla Caimano con gli italiani che fanno le barricate contro l'ipotesi di Massimo capo dello Stato. La sostanza, invece, è con la sua elezione cadrebbe la conventio ad excludendum sui comunisti ma il principio resterebbe e sarebbe valido pure per «gli altri». In primo luogo per An dove infatti i «sostenitori» di «baffino» si trincerano dietro una questione di metodo ma non mettono in discussione il nome e non nascondono un'insospettabile stima. E d'altra parte, come ha scritto Edmondo Berselli su Repubblica, «c'è qualcuno meno giustizialista del Migliorino? Qualcuno più affidabile nella trattativa e nei salvacondotti che Berlusconi richiederà, dopo avergli sentito dire che Mediaset è una risorsa del Paese?». Infine, sempre il Cavaliere non può dimenticare che quando, nel '97, D'Alema era presidente della Bicamerale avrebbe potuto colpirlo. E non l'ha fatto. Avversari e alleati, amici e nemici, poi, non possono negare che il presidente Ds ha un alto senso delle istituzioni e ricoprirebbe l'incarico del Colle mantenendo un comportamento superpartes. La destra lo sa ma non può dirlo apertamente perché tradirebbe il mandato elettorale. Il centrosinistra lo teme, ma promette di combattere al suo fianco perfino se questo vuol dire eleggerlo con i soli voti della maggioranza. E il «Mig

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