Marini, il sindacalista che guida il Senato
L'ambiente in cui è cresciuto è quello del cattolicesimo popolare: la parrocchia, l'oratorio, le Acli, e poi, nella sfera pubblica, la Dc e la Cisl, il sindacato di ispirazione cristiana. Marini è nato in un piccolo paese vicino L'Aquila, San Pio delle Camere. Un nome, un destino, per il candidato dell'Unione alla presidenza del Senato. Siamo sul bordo della piana di Navelli, dove si coltiva lo zafferano migliore d'Italia. Case in pietra, i resti di una vecchia fortificazione e le montagne del Gran Sasso che incombono severe. Qui lo scudocrociato è stato sempre una fede prima ancora che una convinzione politica. Una fede che ha sempre regalato alla Dc percentuali da plebiscito. Ma da San Pio, Franco si allontanò presto. Il padre faceva l'operaio nella fabbrica della Snia di Rieti e aveva sette figli da far crescere. Nonostante le difficoltà economiche, Marini si laureò in giurisprudenza ed entrò nella Cisl. La montagna, però, gli è sempre restata nel cuore: è stato ufficiale negli alpini, ha praticato per anni lo sci alpinismo al Terminillo, ama ancora fare lunghe passeggiate ed è capace di grandi bevute di Montepulciano d'Abruzzo. Fu Giulio Pastore, il fondatore della Cisl, a notare quel giovane e sanguigno sindacalista e a volerlo nel suo entourage. Negli anni 70, gli anni della contestazione, diventò il numero due dell'organizzazione. E, nel 1985, il decimo congresso lo incoronò segretario generale. Lo chiamano, sbagliando, «il lupo marsicano» (in realtà il paese di Marini non ha niente a che fare con la Marsica), ma il soprannome gli si adatta bene. Guidare un branco, ma con spirito individualista, pronto a mordere, quando serve, e a tirare dritto per la propria strada: chi lo conosce bene, Franco Marini lo vede così. Quasi tutti i leader sindacali ambiscono a entrare in politica. Molti ci provano, pochi ci riescono. Marini, indubbiamente, è tra questi ultimi. Nel 1991 l'anziano leader democristiano Carlo Donat Cattin, a sorpresa, gli affidò le sorti della sua corrente. Si chiamava «Forze nuove», ed era un pò l'avamposto del sindacalismo cattolico dentro la Dc. Marini non si tirò indietro, ma molti dubitavano che l'irruento sindacalista abruzzese potesse sopravvivere nella giungla democristiana, dove anche i migliori amici sono pronti all'agguato. Invece Marini, che aveva quasi 60 anni e un'esperienza quarantennale di vertenze e trattative, si rivelò politico accorto e navigato. Erano gli anni di Tangentopoli, e la balena bianca, travolta dagli scandali, perdeva consensi a vista d'occhio. Marini, comunque, nel '92 entrò in Parlamento. In quel periodo scoprì un feeling con Giulio Andreotti, il suo rivale di oggi. Fu ministro del Lavoro nell'ultimo governo andreottiano. A un certo punto, sembrò che dovesse essere lui l'erede della potente corrente del primo ministro. Marini visse per qualche stagione politica in modo piuttosto defilato. Fino a che, nel '97, Mino Martinazzoli gli passò il testimone di segretario del partito popolare, nato sulle ceneri della Dc. La Prima Repubblica era ormai alle spalle, e i popolari avevano scelto la collocazione nel centrosinistra. Marini era perfettamente d'accordo, ma il suo obiettivo era quello di rafforzare l'area dei moderati. La sua segreteria coincise con l'arrivo a Palazzo Chigi di Romano Prodi. L'uscita di Rifondazione Comunista dalla maggioranza mandò il governo a gambe all'aria. È storia nota che Prodi alla Camera non trovò per un soffio i voti necessari per continuare. Molti si sono chiesti: ci fu un complotto contro Prodi ordito da D'Alema e Marini? Da allora, e sono passati dieci ani, Marini ha continuato a smentire. «Invenzioni», «leggende», «ridicole falsità». Ma il dubbio tra i fedelissimi di Prodi è restato a lungo. Il rapporto con Prodi, del resto, non è mai stato facilissimo. Marini ha sempre avuto resistenze a mettere la parola fine all'esperienza del partito di ispirazione cristiana. Non ha mai visto di buon occhio l'idea di congiungere tutte le forze politiche r