di MARZIO LAGHI SCIOLTO il nodo istituzionale sulla presidenza della Camera grazie alla rinuncia «altruistica» ...
Il successore di Bertinotti (che quando siederà sulla poltrona più alta di Montecitorio non potrà più dirigere il partito) è Franco Giordano. Non è un mistero. Il «subcomandante Fausto» l'ha detto ieri senza perifrasi: «Dopo le consultazioni in atto, gli organismi del partito discuteranno la situazione che si presenterà nel caso io diventassi presidente della Camera. Non è una novità che dalle consultazioni uscirebbe la candidatura di Giordano alla guida del partito», ha spiegato a margine dei lavori del comitato politico nazionale. Sebbene non abbia mancato di aggiungere che «sono gli organi del partito a decidere la successione nel caso si verificasse "l'evento". C'è infatti un "se" impegnativo, vediamo se il condizionale diventerà presente». Nato quarantotto anni fa a Bari, iscritto al Pci dal 1974 e dal 1998 presidente dei deputati di Rifondazione comunista, Giordano non è certo un «novellino». E ha tutte le carte in regola per fare il segretario. Ma in vista dell'ingresso al governo, il suo compito sarà molto duro. E difficile. Dovrà tenere insieme le anime più radicali dell'organizzazione e puntare alla coesione soprattutto in funzione dell'equilibrio parlamentare dell'Unione. Nel Prc, infatti, soffiano venti di scissione. A dir la verità, già da alcuni giorni, con l'«appello» lanciato dall'area minoritaria di Progetto Comunista, che per prima ha usato questo termine. Man mano che il giorno di prendere possesso di Palazzo Chigi si avvicina, tuttavia, le spinte centrifughe diventano più ampie e robuste. «Rimaniamo dell'opinione che non esistono le condizioni per un ingresso del Prc al governo del Paese. Altra cosa è l'appoggio esterno, vincolato a misure radicali in grado di far nascere il governo Prodi e di legarlo a una prospettiva di alternativa», ha sottolineato sempre ieri Salvatore Cannavò, portavoce dell'area «Sinistra critica». E neodeputato. «Il berlusconismo - continua Cannavò - non è stato sconfitto ed è una forza viva del Paese, rafforzato dall'assenza di una strategia per l'alternativa da parte dell'Unione. Se Berlusconi ha perso il governo, Prodi non ha vinto le elezioni, anche a causa del suo moderatismo e del compromesso sociale realizzato con le grandi imprese e le grandi banche. Senza un profilo di alternativa le destre possono rivincere, e purtroppo, l'ipotesi di un ministero dell'Economia al tecnocrate Padoa Schioppa, non fa ben sperare. Per questo rimaniamo convinti che non esistano le condizioni per un ingresso del Prc al governo, anche se pensiamo che il governo Prodi debba comunque nascere». Parole che suonano come un'ipoteca sull'esecutivo che guiderà il Professore dopo la fragile vittoria alle urne. E che le amministrative, se sfavorevoli all'Unione, potrebbero rendere ancora più precaria. Considerando il vantaggio risicato della coalizione di centrosinistra al Senato, non è difficile immaginare che cosa succederebbe se venisse a mancare l'appoggio del Prc. Se Cannavò spinge per l'appoggio esterno, Marco Ferrando (il candidato trotskista di Progetto Comunista «revocato» dopo le sue dichiarazioni su terrorismo e guerriglia) parla di una nuova forza politica che potrebbe nascere dalle ceneri del partito di Bertinotti. E quella parte di «Progetto» che fa capo a Francesco Ricci ha in sostanza annunciato la scissione il 13 aprile, ribadendola ufficialmente ieri. Senza dimenticare, poi, le posizioni costantemente «border line» del rifondarolo ma doppiamente «disobbediente» Francesco Caruso. Insomma, come nel '98, Rifondazione potrebbe essere l'elemento «a rischio» del Prodi-bis. E se sarà così non ci vorrà molto tempo per verificarlo. Basta citare ancora Cannavò: «Un primo banco di prova sarà il rifinanziamento della missione militare in Afghanistan: su questo punto nell'Unione non c'è accordo, ma Rifondazione non può votare una missione di guerra contraddicendo un punto centrale della propria storia e della propria identità».