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«Ce ne andiamo, il 40% è con noi»

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Il trotskista Ferrando minaccia la scissione: «Rifondazione non può entrare al governo»

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È un obiettivo politico. E, anche se a lui il termine non piace, si traduce inevitabilmente come «scissione». Dopo il confronto di ieri al comitato politico nazionale le posizioni delle minoranze più radicali all'interno del partito di Bertinotti si sono definite. Quella di «progetto Comunista» è chiara: se il Prc andrà al governo con Prodi, la «corrente» guidata dal trotskista dissidente Marco Ferrando se ne andrà. Non solo. Farà appello ai tutti quei «compagni», fuori e dentro l'organizzazione, delusi dalla linea del segretario. Il «se» è d'obbligo e insieme pleonastico, perché l'ingresso nell'esecutivo non è in discussione. «Ma aspettiamo ancora...», sottolinea Ferrando, che due mesi fa si è visto revocare la candidatura per le sue dichiarazioni sulla guerriglia irachena. Il passaggio di consegne alla segreteria da Bertinotti a Giordano avrà influenza sulle vostre decisioni? «Dal nostro punto di vista Giordano non cambia nulla». Si può dunque parlare di una scissione alle porte? «Sì. Ma non siamo noi a farla. È il partito che si scinde dalle sue posizioni fondative e dalla sua storia». Proprio ora che state andando al governo... «Il 41 per cento del partito ha detto no all'ingresso al governo nell'ultimo congresso. Non c'erano le condizioni politiche. E questo prima ancora di conoscere il programma dell'Unione». E dopo? «Abbiamo proposto un referendum interno sul programma a Bertinotti». E lui? «Ha risposto picche». Poi che cosa è successo? «Siamo tornati alla carica, anche sullo sfondo dei nomi di ministri, come ad esempio Padoa Schioppa. A dimostrazione che Prodi è l'emblema di un uomo vicino alle banche, ai poteri forti e all'Europa di Maastricht. Ed è per questo che ora i grandi poteri, dopo averlo appoggiato, chiederanno il pagamento della cambiale. Ciò significa l'applicazione di ciò che è scritto nel programma dell'Unione. Per questo abbiamo chiesto nuovamente una verifica democratica». Risultato? «Ci hanno detto di nuovo no». Quindi? «Se le cose rimarranno così e se Rifondazione andrà al governo faremo un appello a tutti i compagni per intraprendere insieme il movimento costitutivo di una nuova forza politica. A giugno ci sarà una grande assemblea a Roma e allora nascerà il nuovo partito». Non temete di indebolire Rifondazione nel momento in cui potrebbe avere un ruolo produttivo e positivo per la «causa»? «C'è l'idea socialdemocratioca del Partito democratico, quella anch'essa socialdemocratuica ormai della Sinistra europea caldeggiata da Bertinotti. E c'è la Costituente di chi vuole, diciamo, rifondare Rifondazione. Certo gli effetti di un'operazione del genere sul partito si faranno sentire, ma c'era già un emorragia silenziosa in corso. Il partito si è indebolito per una scelta di campo del tutto innaturale. E la responsabilità non è nostra. È di chi ha fatto questa scelta».

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