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di LUCIANO MARESCALCO «Gli auguri al nuovo presidente? Aspettiamo.

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Aspettiamo». Eccolo lì, il solito Berlusconi irridente, superbo, quello che non sa perdere e che rifiuta di riconoscere la vittoria dell'avversario, chiuso nel suo bunker di Palazzo Grazioli, a spulciare le schede con Bondi e Cicchitto a muovere il pallottoliere. E invece no, quella frase che invitava alla cautela in attesa dell'esito definito dei controlli sulle schede non è mai uscita dalla bocca del Cavaliere, ma da quella del professor Romano Prodi. Eravamo a fine novembre del 2000, a quasi un mese dal voto nel quale George W. Bush aveva prevalso per qualche centinaio di voti su Al Gore, l'amico del centrosinistra italiano beffato nella conta finale delle schede nello Stato della Florida. Erano giorni in cui l'allora presidente della Commissione Ue, sotto choc per la vittoria risicata della destra americana, dall'Ucraina commentava il balletto dei voti per le presidenziali americane quasi con un moto di indignazione. «Quello che accade negli Usa ha dell'incredibile», diceva Prodi da Kiev. Ma come? Non è il bello della democrazia che si possa vincere per una manciata di voti? Non è importante non delegittimare il nemico politico che vince? Lo è, ma solo se vince l'Unione, evidentemente. Basta fare qualche altro esempio. «E' assurdo che si possa diventare presidente pur avendo avuto meno voti dell'avversario. La regola della democrazia è: una testa, un voto. E basta». Eccolo lì, il solito Sandro Bondi che rivendica la vittoria ai punti su Prodi. E invece no, parlava Fausto Bertinotti. Una dichiarazione del novembre 2000 nella quale il leader di Rifondazione contestava, pensate un po', il meccanismo elettorale che assegnava i seggi al Congresso americano sulla base del premio di maggioranza per ognuno degli Stati confederati. E pensare che in quei giorni era lo stesso Prodi a chiamare in causa il leader comunista che lo aveva disarcionato nel '98. «Anche negli Usa un presidente può perdere a causa di un Bertinotti», diceva il Professore in riferimento al mancato sostegno di Nader a Gore. Ma gli anni passano, i politici dimenticano, si arriva così ai giorni del contestato risultato elettorale che il 9 e 10 aprile ha sancito la vittoria dell'Unione e alla nottata di festa di piazza Santi Apostoli consumata prima ancora che l'esito fosse ufficializzato dal Viminale. «C'è ancora una situazione di incertezza e non mi è sembrato troppo opportuno annunciare già la vittoria». Sembrerebbe di sentire un rancoroso Renato Schifani che se la prende con gli ulivisti in festa. Macchè, c'è da fare un passo indietro: siamo nel novembre del 2004 e quella dichiarazione è di Lamberto Dini che non aveva ancora digerito il bis di Bush contro l'esponente dei Democratici John Kerry. Anche in quel caso rintonò l'editto berlusconiano sui presunti brogli, ma per una volta la colpa non era del Cavaliere. A sollevare un mezzo polverone, sull'asse Roma-Washington, fu uno di quelli che oggi si scandalizza per i controlli supplementari chiesti dalla Cdl. «Per conoscere i risultati definitivi dovremo aspettare settimane, aumentano i sospetti di brogli. Quel sistema è in crisi e andrebbe rivisto». Più che un Cavaliere, era un Pecoraro.

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