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Gheddafi

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al fianco dell'Unione

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Non solo. In Italia c'era «un ministro italiano fascista che ha usato un linguaggio razzista, da crociato, colonialista e retrogrado», ministro che «il governo (italiano) detesta e ripudia» e che «è stato costretto a dimettersi». Il giorno dopo, nella sua completezza, il discorso del colonnello Gheddafi acquista la sua piena dimensione anche con un riferimento chiaro a Roberto Calderoli. E tornano in mente i commenti e le ricostruzioni venute dopo i fatti di Bengasi. La responsabilità delle violenze esplose a Bengasi il 17 febbraio contro il consolato generale d'Italia è da attribuire «al ministro Calderoli e alle sue provocatorie dichiarazioni contro l'Islam, un ministro pieno di odio e razzista», aveva tuonato senza mezzi termini nè dubbi Seif el Islam, il «delfino» del colonnello Gheddafi, il giorno successivo ai violenti scontri repressi nel sangue dalla polizia libica nel capoluogo della Cirenaica. Ma poi smentendo in pratica il figlio prediletto, il leader della Rivoluzione verde ha cambiato le carte in tavola e ha rispolverato i «crimini» del colonialismo italiano affermando che i libici «odiano l'Italia che non ha ancora pagato i risarcimenti richiesti». La odiano a tal punto che nella manifestazione del 17 febbraio «intendevano uccidere il console italiano e i suoi familiari». Perchè pensano che «di fronte ai 700mila morti libici del periodo coloniale, cosa importa la morte di un console e famiglia?», ha proclamato il colonnello davanti a oltre duemila persone riunite a Sirte per il 29esimo anniversario della creazione del Congresso generale del popolo e della «grande Jamahiriya libica». Non ha risparmiato però, sia pure senza nominarlo, Calderoli, «un ministro italiano fascista che ha usato un linguaggio razzista, da crociato, colonialista e retrogrado», ministro che «il governo (italiano) detesta e ripudia» e che «è stato costretto a dimettersi». Ce n'è per tutti, nell'infuocato discorso di cui il colonnello ha notoriamente la ricetta, davanti ai comitati popolari «che governano il paese» e all'intero corpo diplomatico (presente anche l'ambasciatore Francesco Trupiano), ritrasmesso alla televisione: per le frange più radicali che chiedono di bacchettare chi osa offendere l'Islam e non hanno gradito la t-shirt dell'esponente leghista, e per quelle che rimproverano al colonnello di non riuscire ad ottenere dall'Italia la famosa autostrada litoranea. Per coloro che osano mettere in dubbio la stabilità della poltrona su cui siede dal 1969 e parlano di tentativi di destabilizzazione del regime (dubbio che peraltro rispunta periodicamente e che è venuto anche dopo Bengasi al ministro degli esteri Gianfranco Fini e ad altri esponenti politici, ma negato decisamente dalle autorità libiche), e quelli che denunciano una recrudescenza dell'integralismo di matrice islamica. Tema questo al quale Tripoli ha risposto scarcerando tutti gli 84 Fratelli musulmani in prigione dagli anni '90 probabilmente proprio per smentire minaccie fondamentaliste sulla Libia e mostrare che Gheddafi non ha paura. Per contentare tutti, Gheddafi aveva bisogno di trovare un colpevole «storico» e ha scelto il passato coloniale di Roma. Il vero colpevole della «catastrofe di Bengasi di cui ci rammarichiamo» è l'Italia, ha detto, sollecitando il risarcimento finanziario come garanzia che in futuro a nessuno venga in mente, nel nostro paese, di lanciarsi nuovamente nell'avventura coloniale. Gheddafi non ha chiuso la porta all'Italia di oggi, quella «di Berlusconi o di Prodi, nostri amici». Certo è che il 28 febbraio e il 1 marzo è andata in onda sulla tv libica una lunga intervista del leader dell'Unione.

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