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Dietro i contrasti personali la strategia di chi punta sull'auto e di chi invece rivendica diversificazione finanziaria

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Il maxi prestito da tre miliardi erogato da tutte le grandi banche italiane aveva garantito una straordinaria iniezione di liquidità che, unita a un radicale cambio di rotta nella politica industriale e al buon lavoro di Marchionne, ha permesso alla Fiat di imboccare la via del rilancio. Il presidente Luca Cordero di Montezemolo potrà dunque presentare un bilancio in linea - se non più roseo - con le aspettative del mercato. Tanto che Marchionne nei giorni scorsi si è già sbilanciato in una anticipazione sul "sentiment" dell'ultimo trimestre 2005 e dell'intero esercizio. La perdita operativa sarà più che dimezzata e il settore auto tornerà a vedere un piccolo utile. Solo tre anni fa, non sarebbe stato facile trovare qualcuno disposto a scommettere su un tale risultato. Merito della Grande Punto, l'autovettura del rilancio (ha già registrato 88.000 ordini, il 45% fuori dall'Italia) e dei modelli lanciati negli ultimi mesi del 2005, che a dicembre hanno portato la quota del Lingotto al 29,4%: 2,8 punti percentuali in più rispetto a dicembre 2004. Ma soprattutto merito di alcune partite straordinarie, dall'accordo con la General Motors - che ha venduto la sua quota in Fiat e rinunciato a prenderne il controllo in cambio di una penale di due miliardi di euro - fino allo stop nella folle diversificazione decisa dalla famiglia Agnelli negli anni '80. Vendute, dunque, gran parte delle partecipazioni estranee al core business dell'auto: dalla Rinascente a Italenergia. Tutte queste mosse non hanno permesso però di rimborsare il prestito da tre miliardi e allo scadere dei termini concordati con le banche il Lingotto ha trasformato il debito in azioni, riempiendo i forzieri degli istituti di credito di titoli. Un'operazione all'apparenza rischiosa per gli equilibri della Fiat, perché con tutte quelle azioni le banche sarebbero dovute diventare i primi azionisti della società, scavalcando gli Agnelli. La famiglia, però, si difese con una mossa sulla quale adesso stanno indagando due diverse Procure della Repubblica: Torino e Milano. I vertici di Ifi e Ifil, le due cassaforti degli Agnelli, evitarono di avvertire il mercato dopo aver commissionato a una banca d'affari di acquistare massicci pacchetti di titoli, proprio per impedire alle banche di diventare azioniste di maggioranza. Mentre si attende l'esito delle indagini ordinate dalla magistratura, è venuta al pettine una prevedibile reazione delle banche. Due tra gli istituti di credito maggiormente coinvolti nel maxi prestito, infatti, hanno iniziato a disfarsi del gran numero di azioni Fiat rimaste in portafoglio. Poco di strano che a vendere sia stato il Monte dei Paschi di Siena, ma la cessione decisa dal San Paolo ha messo in crisi un legame che a Torino sembrava indissolubile. Mai, ai tempi dell'Avvocato, la banca oggi guidata da Enrico Salza avrebbe potuto fare un tale "sgambetto" all'industria automobilistica. E mai e poi mai avrebbe potuto agire in tal modo senza neppure consultare i vertici del Lingotto. Inutile nascondere, dunque, che qualcosa s'è rotto nello storico legame tra l'azienda e l'istituto di credito torinese. «Discorso chiuso», ha tagliato corto qualche giorno fa Marchionne. Da parte di Salza, che ha accusato di supponenza i vertici Fiat, non è arrivato però lo stesso tipo di segnale. «Sono in ottimi rapporti - ha detto il banchiere - sia con Marchionne, sia con Elkann, sia con Franzo Grande Stevens. Con Montezemolo? Tagliate questa domanda». Poi ha aggiunto: «Abbiamo preso la decisione di vendere la quota del convertendo in totale autonomia. Sappiamo che la Fiat va bene e ne siamo felici. Facciamo ancora parte del patto di consultazione. Marchionne è un ottimo manager e ha fatto bene il suo lavoro». La frattura, quindi, c'è. Nonostante le dichiarazioni fornite fino a ieri alle agenzie di st

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