Torna il '96 nel «porto delle nebbie»
Come anche che da decenni viene definito il «porto delle nebbie». Il motivo? Per anni molte inchieste definite «delicate» sarebbero finite sotto terra, in archivio, nell'arco di pochissimo tempo. Due concetti che oggi però vengono messi da parte quando si prende in esame l'esemplare comportamento di uno dei magistrati più alti della procura della Repubblica di Roma, il procuratore aggiunto Achille Toro, che ieri ha deciso di lasciare la direzione delle inchieste sull'Opa Antonveneta, Bnl e sulla scalata al gruppo Rcs. Una decisione apprezzata, anche se a «denti stretti», da tutti i colleghi, dal procuratore capo Giovanni Ferrara e anche da chi vive nei corridoi del palazzo di Giustizia «nell'ombra», come cancellieri, impiegati e dirigenti. Achille Toro è accusato di rivelazione del segreto d'ufficio, cioè di aver rivelato a un magistrato, Castellano, informazioni sulla denuncia fatta dal Banco di Bilbao nei confronti di Unipol, fatte poi arrivare dallo stesso Castellano all'ex ad del gruppo assicurativo. Oltre alle accuse mosse al procuratore aggiunto dai pm di Perugia, a convincere Toro a farsi da parte sono stati motivi di opportunità. «Sono amareggiato, certo che lo sono. Ma mi difenderò — ha detto il magistrato — Lo farò davanti ai miei giudici, quelli di Perugia e dimostrerò che si tratta di accuse infondate. Lasciare le indagini sulle scalate era un atto doveroso in risposta proprio alla fiducia che il procuratore Ferrara ieri mi ha dimostrato. Un atto che ho assunto per tutelare innanzitutto l'ufficio». Scorrendo questa vicenda il pensiero potrebbe automaticamente tornare a quasi dieci anni fa, al marzo del '96, quando la stessa Cittadella di piazzale Clodio venne travolta da una bufera giudiziaria, colpita da ordinanze di custodia cautelare in carcere e avvisi di garanzia emessi dai colleghi milanesi nei confronti di «uomini di Giustizia»: nei guai infatti finirono, a seconda delle posizioni processuale, l'allora capo dei giudici per le indagini preliminari romani Renato Squillante, i magistrati capitolini Francesco Misiani e Raffaele De Luca Comandini. Contro Squillante all'epoca l'accusa fu di corruzione per aver ricevuto denaro da Cesare Previti in cambio di informazioni coperte da segreto istruttorio. I due colleghi di quest'ultimo invece furono iscritti sul registro degli indagati con l'accusa di favoreggiamento. Quello che è accaduto l'altro giorno, con l'iscrizione sul «modello 21» del procuratore aggiunto Toro da parte della procura di Perugia, competente sulle vicende nel palazzo di Giustizia romano potrebbe far dunque scattare immediatamente il paragone con la vicenda del '96, delle intercettazioni al bar Mandara, a due passi dalla Cittadella giudiziaria. Il gesto però compiuto dall'alto magistrato Toro, quello di consegnare nelle mani del procuratore capo Ferrara le delicate inchieste, ha fatto scoppiare una serie di «brusii» nei piani «alti» della procura proprio a favore del magistrato indagato. Una circostanza quindi differente rispetto a quando venne firmato un ordine di cattura per l'ex capo dei gip, che proprio un mese fa ha ascoltato la sentenza d'appello del processo Sme che si è svolto a Milano. In questo verdetto la Corte ha ritoccato la posizione di Renato Squillante: la sua condanna infatti a otto anni inflitta in primo grado è stata ridotta a sette. Sette anni, e sempre per corruzione in atti giudiziari, mentre già davanti al Tribunale l'accusa era stata derubricata per Previti e Pacifico in corruzione semplice. Il pagamento di 434 mila dollari da un conto riconducibile alla Fininvest, giunto su uno dell'ex magistrato attraverso un conto di Previti, risale al '91, quando era prevista la corruzione in atti giudiziari solo per il pubblico ufficiale e non anche per il privato corruttore. Squillante, per l'accusa, aveva posto «le sue funzioni al servizio degli interessi» di Silvio Berlusconi, di Previti e Pacifico. E l'avrebbe fatto dietro il pagamento di somme tra le