Applausi e lacrime per la scelta di Antonio Fazio
Dalla porta chiusa, dall'altra parte un salone, sento la voce di Fazio che parla. Non comprendo le parole, ma saprò dopo che sono riuniti lì tutti i funzionari generali. Scoppia un applauso fragoroso.Poi ancora la voce di Fazio. E un altro applauso. È la testimonianza dell'ultima bugia letta ovunque: quella dell'uomo solo, con tutta la banca contro. Non è così. Si apre la porta dell'ufficio privato di Fazio. Ecco il Governatore. Allarga le braccia, sorride. Gli sussurro: «Lo sa che non ero d'accordo». Lui cerca di confortarmi: «Non se la prenda. Non è una sconfitta. Sono sereno, molto sereno». In questi mesi mi è capitato di ascoltare più volte le sue parole. Qualche volta l'ho incontrato in forma privata. Mai l'ho visto così disteso e sereno. «Nessuna dichiarazione», premette, «oggi e per i prossimi giorni parlerò solo attraverso comunicati ufficiali». E mi sottolinea i passaggi del lungo comunicato con cui si ufficializzano le dimissioni. Conoscendolo ormai un po', capisco che lì dentro c'è davvero tutto. La storia in poche righe di un servitore di questo Paese. La passione dell'economista. La puntigliosa difesa di una linea di condotta: «Incessante è stata la promozione degli interessi nazionali, in coerenza con gli interessi europei, nel rispetto della legge e con gli strumenti posti a disposizione dell'ordinamento». Orgogliosa anche la rivendicazione degli interessi della storia e dell'istituzione Banca d'Italia. L'unico orizzonte della sua vita professionale. Privato l'incontro, riservate le parole che ci siamo detti. Ma quella serenità che ho visto la dice più lunga di tante articolesse. Perfino quando il Governatore si è tolto la giacca, seduto in poltrona, acceso il lungo sigaro toscano e ha voluto sapere del mio lavoro, di come va Il Tempo che lui legge da tanti anni. Certo, non me l'aspettavo. Fino all'ultimo ho creduto che Antonio Fazio resistesse. Piuttosto provando la strada di quell'autosospensione necessaria per passare le forche caudine dell'annunciata nazionalizzazione della Banca d'Italia. Avrei voluto resistesse, per non darla vinta a questo nuovo potere che tutti ci schiaccia facendo scempio della verità. Lui ancora una volta ha scelto l'interesse dell'istituzione che stava guidando. Ora sì, messo seriamente a rischio dalle norme che Giulio Tremonti aveva in programma di fare varare dal consiglio dei ministri di oggi. Portare la Banca d'Italia direttamente sotto l'esecutivo sarebbe stato colpo mortale alla sua indipendenza. Avrebbe provocato ricorsi alla Corte di Giustizia Ue, uno scontro istituzionale senza precedenti. Avrebbe davvero danneggiato l'immagine dell'Italia sui mercati internazionali. Il gioco, questa volta, sarebbe stato pesante. E forse per la prima volta, magari per suggestione nata dalla cronache giudiziarie, il mondo politico si è mostrato compatto nel chiedere al Governatore di fare il passo indietro. Sì, quello stesso mondo politico che alla fine del 2000 gli aveva tirato la giacchetta da ogni lato. L'Ulivo che lo voleva candidato premier prima ancora di Francesco Rutelli, e sciorinava sondaggi secondo cui ce l'avrebbe fatta a battere Silvio Berlusconi. Il leader della Casa delle Libertà che dall'altra parte lo avrebbe voluto nella sua squadra di governo: «Tutti mi parlano così bene del suo lavoro in Banca d'Italia». E invece il rifiuto della politica. Di quella stessa politica che oggi gli ha voltato le spalle, alzando ingiustificati schizzi di fango, tratteggiando la figura di un banchiere-cinghialone così lontana dalla realtà. La trappola è stata costruita in ogni maniera. Dalla buona fede prestata a Gianpiero Fiorani, fino alle poche parole negli incontri con Giovanni Consorte, che il gran capo dell'Unipol ha tradotto al telefono con gli amici in un erroneo: «È fatta, Fazio sta per darci il via libera all'Opa». Una trappola dietro l'altra, e una buona fede sfruttata da chiunque e utilizzata dai nemici come pistola puntata alla tempia. Per questo rende sgomenti il gesto di ieri: l