Pubblichi il feto abortito di un bimbo down «Caro Direttore Accetto la sfida.
Lei dice, come Giuliano Ferrara, che quello potrei essere io. Io, allora, la sfido a pubblicare in prima pagina la foto di un feto di 18-20 settimane, abortito perché Down, di dimensioni maggiori, più grandi delle mani femminili che lo tengono. E La sfido a rispondere perché oltre il 99% delle donne cerca di sapere se il «bimbo», che ha in grembo, sia Down per eventualmente poi abortirlo. Non è forse lo stesso bambino, la stessa vita, anche quello? Io, che rendo concreto il diritto di scelta della legge 194, quando un bimbo nasce handicappato, o nasce Down, non lo ammazzo, proprio perché penso che sia diventato vita. Perché chi pensa che sia vita sin dalle prime cellule lo ammazza quando scopre che è Down nelle settimane successive? Non è forse perché passando dalla morula, all'embrione, al feto e al nascituro si abbia un valore etico crescente, per cui il lutto non è lo stesso, se una gravidanza si spegne a sei settimane, o se il feto muore all'ottavo mese? Evidentemente è così, quell'embrione e quel bimbo che sarà non sono la stessa cosa; a sei settimane ci si limita al dispiacere, all'ottavo mese ci si comporta davvero come se fosse morta una persona. E persona è davvero. Allo stesso modo quell'embrione non è Silvio, non lo è ancora e, se lo sarà, avrà preso il posto potenziale di un altro, che non ci sarà. Spesso i discepoli del Movimento per la Vita mi urlano, con insistenza profetica, «ma Viale, anche tu sei stato un embrione!». Nulla di più vero, ma nello stesso tempo nulla di più falso. A loro io, seraficamente, replico che «se mia madre avesse abortito, io non ci sarei, ma certamente ci sarebbe stato qualcuno, senz'altro migliore di me, al mio posto». E proseguo, facendo notare come mia madre si sia fermata a due figli, «forse proprio a causa mia e di mio fratello», ma che «in ogni caso non ne avrebbe fatti nove come le nostre nonne». Ne avrebbe sempre fatti solo due, o forse tre, anche se avesse abortito me. Vede, caro Direttore, ognuno di noi è in fondo un sopravvissuto casuale di una strage di propri fratelli, che comincia già nelle tube e si conclude con le scelte dei nostri genitori. Nessuno, neanche il più pio dei ciellini sfrutta tutto il proprio potenziale riproduttivo, ma lo calibra sulla base dei propri progetti di vita, delle proprie aspirazioni e secondo le circostanze. Vede, caro Direttore, io non ho problemi ad appendere quelle foto sui muri dei nostri ospedali, che sono già zeppi di foto di neonati, ma sappia che non convinceranno nessuno. Lo hanno capito anche gli amici dei Cav. Pensi che nell'anticamera della nostra «saletta» delle IVG vi è un crocifisso, che non ha mai fatto cambiare idea a nessuno. Non vado oltre, se non per ricordarLe che nel nostro «Giuramento di Ippocrate» non vi è più il divieto di somministrare pozioni abortive, ma vi è l'obbligo di rispettare le leggi dello Stato. E poi ognuno di noi ha le proprie leggi interne, quelle che ci fanno scegliere continuamente, a secondo delle nostre possibilità, il meglio per noi, per la nostra famiglia e per i nostri figli. Anche questi sono fatti, come quel feto nelle mani di una donna, il cui corpo non svelato è un altro fatto, ma il fatto più grande resta la libertà di scelta. Caro Direttore, se quella foto è un fatto, il punto di vista dell'abortito è certamente un artefatto. La pianificazione familiare è il vero fatto. Vuole una proposta? Che ognuno possa scrivere sulla carta di identità «io sono contro l'aborto»; un impegno solenne, che in fondo comporta solo di rifare i documenti, il giorno che ci si trovasse con un test di gravidanza non voluto, nel momento più sbagliato». Silvio Viale Quella foto è una scelta di grande giornalismo «È esattamente vero. Quella foto commuove e fa profondamente riflettere, costringe a soffermarsi e a pensare molto, molto seriamente alle proprie posizioni e convincimenti al riguardo. Grazie per averla pubblicata. Se giornalismo è documentare e far conoscere la realtà, ebbene la vostra è