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di GIUSEPPE GRIFEO e ALESSANDRA PIETROMARCHI I SOLDI non bastano, Alessandra è incinta.

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Lei cerca lavoro e io non ho uno straccio di contratto. Viviamo alla giornata, non abbiamo scelta e decidiamo di ricorrere all'interruzione della gravidanza. Questo, almeno, è quello che siamo pronti a raccontare a medici ed operatori sociali quando si decide di capire come e quanto sia facile arrivare ad un aborto. Fra gli ospedali pubblici visitati, il Sant'Eugenio e il San Giovanni, mentre fra i consultori si è andati direttamente, o si è telefonato, ad una decina di strutture che vanno dall'XI al IV Municipio. Siamo in strada poco dopo le nove e trenta, per trovare soluzione al nostro problema di coppia senza mezzi economici certi che rifiuta per ora il ruolo di genitori. Prima tappa all'ospedale Sant'Eugenio, ce ne hanno parlato bene. Passiamo i cancelli, ci facciamo guidare dai cartelli «Ginecologia e Ostetricia». Ci perdiamo come in un labirinto, per un momento è un sollievo. Poi incontriamo un medico: «Il reparto sta in questo edificio, al secondo piano. Basta prendere l'ascensore». Entriamo nel palazzo, le porte dell'ascensore non si chiudono completamente e lasciano uno spazio aperto. «Credi che sia sicuro?» mi domanda Alessandra, «Hanno un aspetto preoccupante». Va bè, non ci formalizziamo. Al secondo piano, però, non troviamo il reparto giusto. Passa un altro medico: «Al terzo piano, non potete sbagliare». Questa volta prendiamo le scale. Forse per il momento che stiamo vivendo, o chissà per quale motivo, l'occhio cattura ogni particolare. E' sempre Alessandra la prima a parlare: «Guarda il muro appena sopra al termosifone. L'intonaco è bruciato come se per spegnerle vi avessero schiacciato sopra centinaia sigarette». Arriviamo ad un corridoio che porta alla sezione che cerchiamo, ma ci fermiamo di fronte a un cartello: «Non appoggiatevi ai muri. Siete pregati di attendere nella sala d'aspetto. Tenete pulito». Gli operatori ancora non ricevono, il lavoro comincia alle 10,30. Prima operano, poi i colloqui. Entriamo nella sala d'aspetto, una stanzetta ricavata dal disimpegno di due ascensori. Restiamo in piedi, le sedie sono occupate ed altri attendono appoggiati ai muri. Le pareti del corridoio, quelli da rispettare e tenere puliti, sono freschi di tinta, qui invece c'è scritto di tutto. «Agiusta questo sciensore», oppure messaggi d'amore di coppie che qui sono passate, come noi, prima di abortire o di fare un semplice controllo. «Guarda Giuseppe -prosegue Alessandra - qui c'è scritto "Ti amo e ti amerò sempre" e lì "Tu sarai la mia donna per sempre". Sono tante». Non mancano simboli strani, segni che poco hanno a che fare con il luogo: un segno che assomiglia ad una croce celtica e anche due giganti «SS». La piccola stanza è piena di persone e su alcuni visi il disagio è lampante, soprattutto quando il loro sguardo sulle donne che vanno a farsi controllare, il primo accenno del ventre ingrossato. Il disagio di una madre slava che ha accompagnato la propria figlia quattordicenne; una giovane ragazza, anch'essa straniera; due amiche che non avranno più di 19 anni; una coppia con le facce preoccupate, come le nostre. «Ma quella è una ragazzina», mi sussurra Alessandra sottovoce lanciando un'occhiata alla quattordicenne. «Non può succedere così in fretta a quella età». Alle 10,40 il portoncino del reparto apre. Dopo trenta minuti arriva il nostro turno ma io non posso entrare: «I maschi non possono accedere al reparto. Non devono vedere le donne che abbiamo operato oggi» mi dice il medico. «No da sola no, non mi va di andarci. Io me ne vado via». Alessandra non vuole entrare, ma basta farle capire che deve chiedere solo delle informazioni e il coraggio ritorna. La lascio sulla porta e torno a sedermi. Dopo nemmeno 15 minuti esce: «Mi ha chiesto come mai voglio solo informazioni. Dice che qui fanno quasi a botte per farsi dare l'appuntamento nel più breve tempo possibile. E io? Soltanto informazioni? Mi sono sentita pressata». Non solo: «Dice che prima delle feste le richieste aumentano e che devo farlo subito, la lista

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