L'Italia è stufa di pagare l'«assegno inglese»

Da un paio di giorni, all'interno del Parlamento europeo, è questo il nomignolo con cui viene chiamato il premier britannico Tony Blair. Il presidente della Commissione Europea Josè Barroso lo ha addirittura usato pubblicamente dicendo che non si aspettava che la presidenza britannica assumesse «il ruolo dello sceriffo di Nottingham, che prendeva dai poveri per dare ai ricchi». Causa scatenante della polemica la proposta inglese per il bilancio della Ue 2007-2013. Una proposta che, in estrema sintesi, prevede una riduzione delle risorse disponibili che diventano 847 miliardi di euro; una decurtazione degli aiuti per i dieci nuovi Stati membri pari all'8% (circa 14 miliardi di euro) e di 7 miliardi per gli altri 15 Stati; una sostanziale intoccabilità del «rimborso» che Londra riceve ogni anno dall'Unione Europea. Anche se la presidenza inglese cerca di salvare la faccia rinunciando (per la prima volta in 20 anni) agli 8 miliardi di euro di «rimborso» che i Paesi dell'allargamento dovrebbero pagare nei prossimi 7 anni. Ciò nonostante la proposta non è piaciuta, almeno formalmente, a nessuno. Anche se c'è chi giura che, nel gioco degli accordi, ognuno cercherà di portare a casa quanto più possibile e quindi non è escluso che, nel vertice dell'Unione di giovedì prossimo possa arrivare il via libero all'esercizio di bilancio. A far discutere è soprattutto quel «rimborso» a cui Londra non sembra in nessun modo disposta a rinunciare. La storia «dell'assegno inglese» è vecchia di 20 anni. Ogni Paese europeo, infatti, contribuisce con una quota parte al bilancio della Ue. In virtù di un accordo stipulato nel 1984 dell'allora premier inglese Margaret Thatcher, la Gran Bretagna ottenne il rimborso dei due terzi di quanto versato. L'accordo nasceva dalla difficile situazione economica in cui versava il Paese. Dal 1984 quella che era una misura eccezionale è diventata prassi. Nel 2004 «l'assegno inglese» ammontava a 4,7 miliardi e, secondo stime della Commissione Ue, dovrebbe salire a 7,7 miliardi nei prossimi sette anni facendo registrare un incremento del 64%. Come se non bastasse i primi contribuenti di tale rimborso sono Francia e Italia. L'Italia da sola paga attualmente oltre un milione di euro (più del 23% del totale). Ed è per questo che ieri, intervenendo al Senato, il ministro degli Esteri Gianfranco Fini non ha usato mezze parole. Pur precisando che sulla proposta britannica è ancora in corso una «valutazione approfondita» ha definito «complessivamente negativo» il compromesso presentato. Secondo Fini, infatti, la proposta inglese mantiene tutte le misure ad hoc a favore dei grandi contribuenti (Germania, Paesi Bassi e Svezia) e «come unico elemento di novità», introduce «una parziale misura di contenimento del rimborso al Regno Unito». Con questa proposta, ha detto, l'Italia si troverà «a contribuire unicamente con l'obiettivo di risolvere il problema politico e finanziario di un Paese come il Regno Unito che continua di fatto a rifiutare di assumersi le proprie responsabilità nel contesto di una equa distribuzione dei costi dell'allargamento». Secondo «stime preliminari», infatti, l'Italia si troverebbe a pagare un contributo netto superiore a quello della Francia e della Gran Bretagna. Ma la proposta inglese non sembra raccogliere molti sostenitori neanche negli altri Paesi europei. A parte alcune voci fuori dal coro (in primis quella olandese) un secco no alla proposta è arrivato ieri da tutti i ministri delle Finanze europei radunati a Bruxelles per la riunione dell'Ecofin. Giudizi a cui si sono aggiunte le bocciature del presidente della Commissione Ue Barroso, del presidente dell'Europarlamento Josep Borrell e di due Paesi «pesanti» come Francia e Germania. La Spagna, invece, ha già messo a punto una controprosta che verrà presentata a Blair venerdì. Per il premier inglese si preannuncia una settimana di fuoco nel tentativo disperato di trovare un accordo. Ma siamo proprio sicuri che siano queste le sue intenzioni?