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di GIANNI DI CAPUA IL ministro del Welfare Roberto Maroni una bottiglia l'ha stappata ugualmente.

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Se nessun esponente leghista potrebbe dirsi felice — come ha ammesso lo stesso Maroni — di certo può dirsi «soddisfatto». La riforma conferma sostanzialmente il testo presentato dal ministro del Carroccio senza quella portabilità che a gran voce chiedevano le assicurazioni e lo stesso premier insieme con il Parlamento. La modifica sostanziale riguarda la data di partenza. Il fischio di inizio è posticipato di due anni. Tanto per le piccole e medie imprese che hanno difficoltà nell'accesso al credito — per le quali si prevedeva una moratoria di tre anni — che per tutte le altre aziende la partita della previdenza complementare si giocherà nel 2008. Le alternative peggiori, per Maroni, sono comunque state evitate. Se fosse passata la soluzione della portabilità a tempo «filoassicurazioni» per Maroni avrebbe significato una sconfessione piena dell'accordo preso con le parti sociali. Se invece si fosse deciso per l'ennesimo rinvio, il governo avrebbe rischiato la beffa per una riforma promessa e mai varata. La terza soluzione dello slittamento al 2008 contestualmente al decollo della riforma del primo pilastro della previdenza pubblica, con l'innalzamento dell'età pensionabile, scontenta ugualmente i sindacati ma raccoglie il plauso della Confindustria e anche delle altre associazioni imprenditoriali, seppur con qualche mugugno per il rinvio. Rammarico per lo slittamento l'hanno manifestato, per esempio, i banchieri. Ma il compromesso a Palazzo Chigi tra quanti sostenevano la linea del premier sulla par condicio tra le forme integrative e chi invece, come Alleanza nazionale, difendeva il testo Maroni e la salvaguardia della corsia preferenziale ai fondi negoziali, risulta comunque una vittoria, ancora una volta, per la Lega. Arrivare a trovare un accordo tra i ministri non è stato facile. Le trattative sono durate tutto il mercoledì notte e ancora ieri mattina in Consiglio tra Mario Baccini e Maroni ci sono state scintille. «Le dimissioni non si minacciano ma si danno — avrebbe detto a muso duro il ministro della funzione pubblica all'esponente della Lega — Stavolta, però, se hai la reale volontà di dimetterti guarda che sono fortemente tentato di votare a favore...». Nel merito, comunque, l'intesa di massima nel governo sarebbe stata già raggiunta nelle ore precedenti la riunione, anche grazie alla mediazione del leader del Carroccio Umberto Bossi e del vicepremier Giulio Tremonti. È rimasta però, secondo alcune fonti ministeriali, l'irritazione di Berlusconi nei confronti del ministro leghista per i suoi continui riferimenti al suo conflitto d'interesse. L'altra notte, infatti, i mediatori, soprattutto Roberto Calderoli e Tremonti, avrebbero faticato non poco a tenere aperto un canale di dialogo con il premier ma ieri mattina Berlusconi sarebbe andato su tutte le furie dopo aver letto l'intervista di Maroni a Repubblica, poi smentita dallo stesso ministro leghista, in cui veniva definito «burattinaio». Berlusconi ha comunque abbandonato la riunione del Consiglio dei ministri quando si è cominciato a parlare di Tfr: un'assenza definita «doverosa» dal comunicato finale della riunione, collegata a quanto previsto dalla legge sul conflitto di interessi. Nel caso specifico, il premier ha ritenuto opportuno lasciare la riunione, così come ha sempre fatto in tutti quei casi in cui sono stati esaminati provvedimenti che potrebbero riguardare partecipazioni azionarie di aziende collegabili alla sua persona. Al momento del voto si sono astenuti i tre ministri di Forza Italia La Loggia, Miccichè e Pisanu. «Abbiamo ritenuto di esprimere la nostra non completa soddisfazione con l'astensione: alcuni aspetti meritavano qualche attenzione in più» ha commentato Enrico La Loggia.

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