Fini: «Ho fatto bene a sciogliere le correnti»
Il referendum aveva fatto esplodere una tensione accumulata da tempo. Le elezioni regionali erano andate male anche per Alleanza nazionale, Alemanno si era dimesso da vicepresidente e aveva duramente polemizzato con Fini. Isolato dal referendum, questi rispose per le rime a tutti. Disse che mai An sarebbe diventata un partito cattolico, «anche se deve saper parlare ai cattolici». Accusò i più alti dirigenti «di uno spettacolo che nelle ultime settimane non è parso proprio edificante», definì le correnti «metastasi nel corpo del partito». Sfidò infine i colonnelli: «Sfiduciatemi». Dinanzi alla ribellione generale, l'indomani Fini si scusò: «Le metastasi non sono le correnti e i capicorrente. La metastasi è la degenerazione del meccanismo correntizio di cui io sono il primo responsabile». Fece anche autocritica sulla scarsa consultazione che aveva preceduto la concessione di libertà di coscienza al referendum e, dopo una laboriosissima mediazione sulla frase dell'ordine del giorno relativa alla legge sulla procreazione assistita, il partito si ritrovò in un documento unitario. Ma la tregua durò soltanto dodici giorni. FINI aveva dato incarico a La Russa di organizzare una cena con altri cinque invitati: Gasparri, Alemanno, Storace, Nania e Matteoli, che intanto aveva ripreso il vecchio ruolo di responsabile organizzativo del partito contro il parere delle altre componenti. La cena sarebbe dovuta servire a ristabilire un'unità vera, dopo le ferite - non rimarginate - aperte durante l'assemblea nazionale del partito. Matteoli era il più preoccupato. Vecchio e fedele amico di Fini vedeva che le cose non giravano e voleva mettersi d'accordo con gli altri prima di incontrare il presidente di An, la sera di giovedì 14 luglio. La cena ci fu, e andò bene. Fini chiese ad Alemanno di ritirare le dimissioni dalla vicepresidenza. Disse che avrebbe voluto inserire nell'ufficio di vertice del partito il neoministro Mario Landolfi, escludendovi peraltro i tre vicecoordinatori di La Russa (Italo Bocchino, Carmelo Briguglio, e Giovanni Collino). Fini ignorava, tuttavia, quel che era accaduto all'ora di pranzo di quello stesso giorno. Alcuni dirigenti di An si erano trovati in mattinata nella splendida sede del «Tempo» a palazzo Wedekind, in piazza Colonna, per un seminario sul partito unico del centrodestra. Poiché il suo intervento stava subendo ritardi, Matteoli propose a Gasparri e La Russa di fare due chiacchiere fuori. «Invece di andare alla Camera, mangiamo un panino alla Caffettiera», un bar che si affaccia sulla vicina piazza di Pietra. I tre si parlarono con franchezza. Si discusse delle possibilità di dividere il partito in una maggioranza e in una minoranza, ma è sul presidente che vennero pronunciate le frasi più impegnative. «Fini è malato» disse La Russa. «Non so di che malattia si tratti, ma o guarisce o sono guai... Sul partito unico non possiamo far fare le trattive a Gianfranco. Quelli gli telefonano e lui dice sempre sì...». «La vera questione» intervenne Matteoli «è chiedersi chi è Fini oggi. Dobbiamo andare da lui prima delle ferie d'agosto e dirgli: "Gianfranco, svegliati". Che so, se serve prendiamolo a schiaffi...». Gasparri, al quale non manca la lingua tagliente, fu invece più prudente. Al tavolo accanto sedeva un giovane cronista del «Tempo», Nicola Imberti, il quale aveva peraltro collaborato brevemente - in modo marginale - con il ministero retto da Gasparri, che però non notò la sua presenza. L'indomani il quotidiano diretto da Franco Bechis pubblicò la conversazione parola per parola. L'ufficio stampa di palazzo Chigi trascurò di inserire l'articolo nella rassegna della presidenza del Consiglio, così il mattino di venerdì 15 luglio Paolo Bonaiuti chiamò Fini senza sapere nulla. «Come stai?» gli chiese. «Come vuoi che stia?» rispose l'altro. «Hai visto "Il Tempo"?». L'episodio, in effetti, era gravissimo e il leader di An reagì come avrebbe reagito chiunque: facendo allestire la ghigliottina pe