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Quando l'Ulivo voleva ad ogni costo la riforma elettorale

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Sul fronte opposto il Cavaliere ribatteva: «Non gliela faremo fare, vogliono cambiare le regole solo per tentate di batterci»

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Manca poco più di un anno alla fine della legislatura. Messa così la notizia non desta particolari sussulti. Anzi, sembra quasi di rivedere un film già visto. Il governo che lavora ad una riforma della legge elettorale e la legislatura che si avvia verso la sua fine fisiologica, esattamente quello che sta accadendo in questi giorni. Vico parlerebbe di un «ricorso storico» se non fosse che in quel «lontano» febbraio del 2000 gli attori recitavano a parti invertite: centrosinistra al governo, centrodestra all'opposizione. Il centrosinistra si agita, lavora, cerca un'intesa unitaria sulla riforma, pensa anche ad un proporzionale in salsa tedesca. Dall'altra il centrodestra sembra starci, dialoga, ma poi alza le barricate. E così può anche accadere che chi nel 2000 parlava di «golpe legalizzato» oggi, dall'altro lato dello steccato, parli di «atteggiamento irresponsabile da parte dell'opposizione». Esattamente come chi, mentre oggi accusa la maggioranza di «truffa elettorale», 5 anni fa era disposto ad andare avanti ad ogni costo. Dopo tutto si sa, «ogni scarrafone è bello a mamma sua». E fu così che, nell'agosto del 2000, l'allora sottosegretario alle Riforme Dario Franceschini avvertisse l'opposizione: «Se il Polo si sfilasse noi avremmo il dovere di dare comunque al Paese una nuova legge, il tempo c'è tutto». Tutto questo mentre l'allora vicepresidente centrista della Camera Carlo Giovanardi liquidava le proposte avanzate dal governo con un laconico «non c'è tempo per la legge elettorale». Che dire poi del leader di An Gianfranco Fini, oggi vicepremier e ministro degli Esteri schierato sul fronte riformista, 5 anni fa combattente senza macchia e senza paura contro una legge elettorale che non poteva essere approvata a «colpi di maggioranza»? Beh, Fini era in buona compagnia, sul fronte governativo l'allora presidente del Consiglio Giuliano Amato e il candidato dell'Ulivo Francesco Rutelli ribattevano: «È ora di proseguire con grande decisione senza arretrare di un millimetro lasciando alla Cdl l'onere di spiegare i suoi prevedibili "no"». In questo valzer di dichiarazioni non poteva certo mancare il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Era il 26 agosto 2000 e dalla sua amata Sardegna il Cavaliere attaccava: «Vogliono fare la nuova legge elettorale da soli, ma noi non glielo consentiremo. Si sono per anni riempiti la bocca di maggioritario e adesso hanno rispolverato il proporzionale per tentare di battere il centrodestra». Ricevendo per tutta risposta da Walter Veltroni un «Portare solo il cartello del no e dire solo no non fa bene neanche a loro ed è l'ulteriore testimonianza delle loro difficoltà». Particolarmente coloriti i commenti dal fronte leghista. Si va da un Umberto Bossi che dalle sorgenti del Po incita la folla: «La legge elettorale non si tocca» (16 settembre 2000) fino ad un Roberto Maroni che, di fronte all'ipotesi di un rilancio della riforma elettorale, risponde: «Ci opponiamo a questo tentativo di "golpe legalizzato"». Nè più nè meno di Massimo D'Alema che, rivolto a Berlusconi e alla sua posizione in materia di riforma elettorale, ironizzava: «Ora ha cambiato opinione è una persona alquanto incostante». Chiudiamo questa carrellata del «l'ho detto ma me lo sono dimenticato» con l'allora segretario del Ccd Pier Ferdinando Casini che nel novembre 2000 osservava: «È comprensibile l'atteggiamento di chi, come noi, ritiene che nel mezzo della partita non si cambino le regole». Puntuale la risposta del segretario dello Sdi Enrico Boselli: «Il centrodestra vuole mantenere questa legge elettorale, con tutti i richi che comporta, solo perché con essa vince». Che dire? Ai nostri novelli «voltaggabbana» resta solo una magra consolazione: le parole di Lowell che con realismo osservava che «solo i morti e gli stupidi non cambiano mai idea». N. I.

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