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E Alemanno ruppe il tabù

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Sono rimasto in silenzio ad ascoltarti e non ti ho interotto. Ti prego di fare altrettanto». E così, un altro tabù è caduto all'interno di Alleanza nazionale. Un colonnello che zittisce il gran generale. Non era mai accaduto. O almeno non era successo in pubblico, dove tutti i dirigenti di An hanno sempre mantenuto un comportamento di massima riverenza nei confronti del loro leader. Una riverenza che alle volte è sembrata anche stucchevole, penosa, anche ridicola. Ma anche questa fase sembra archiviata, finita in soffitta. Non è un caso che Fini e Alemanno si siano beccati. Proprio quando il ministro delle Politiche agricole aveva preso la parola all'inizio del suo intervento, il presidente di An lo aveve pizzicato. Era accaduto quando Alemanno stava spiegando che le correnti si possono superare in due modi «dall'alto e dal basso». «Sì - lo aveva interrotto ironico Fini - anche da destra e da sinistra». E Alemanno serio e con tono grave: «Sì, volendo anche da destra e da sinistra». Un piccolo battibecco che sembrava tanto un tentativo di intimorire il leader di Destra sociale che lavora già da segretario del partito, anche se la carica ancora non è stata istituita. Quanto sembra lontana quella foto dell'aprile del 2002, la fine del congresso di Bologna. Fini che chiama sul palco tutti e sei i capicorrente che si mescolano tra loro e si fanno fotografare abbracciati. Oggi c'è un leader da un lato e i suoi colonnelli dall'altro. E visto che An è un partito tradizionale, anche il tavolo della presidenza ha la sua importanza. Come i vecchi tavoloni dei congressi del Pci, che servivano a ricostruire la geografia interna: chi aveva fatto carriera e chi era caduto in disgrazia. Certo, oggi siamo nel terzo millennio, la presidenza ha pochi posti ma questa volta sembrano dimostrare che qualcosa è cambiato. Siede per esempio Roberto Menia, uno che non ama i riflettori e a cui piace molto stare dietro le quinte. Marco Martinelli, un altro del quale è quasi impossibile trovare una foto persino nell'archivio del Secolo, e che però mantiene le redini del partito. O Giovanni Collino, Silvano Moffa, Andrea Ronchi e Donato Lamorte. È la nuova guardia. I colonelli? Una volta sedevano al tavolo, tutt'al più in prima fila. Oggi sono agli ultimi banchi. E in tutte quelle file di sedie in mezzo nella sala stretta e lunga c'è più di qualunque discorso sui rapporti interni ad An. Il capo da un lato, tutti gli altri dall'altra. O meglio, un'area vasta che comprende la maggiore e la minore componente che assieme hanno dimostrato di avere i numeri per mettere in minoranza il capo. Nonostante dalla sua, Fini, abbia la corrente di mezzo, mediana e mediatrice, quella di Altero Matteoli. Il quale si becca dal palco con Storace. Accade quando il ministro dell'Ambiente dice che il partito unico «quando si farà sarà un partito unico sarà un partito di destra, al massimo di centrodestra». E Storace lo rimbrotta dalla platea: «E Aznar che è? De destra o di centro?». Matteoli sembra imbarazzato, glissa: «Di destra, di centrodestra...». E a chi, dopo, chiede se interverrà dal palco, il ministro della Salute risponde con una delle sue proverbiali battute: «Non lo so, non vorrei che Matteoli mi prendesse a schiaffi». Salirà poi sul pulpito per difendere quell'ordine del giorno e anche quel capoverso con il quale si cerca di togliere il potere di nomina dei coordinatori regionali. Farà la voce grossa e davanti a un Fini che lo guarda con una faccia immobile, granitico nelle sue posizioni, senza la benché minima espressione o emozione, gli griderà: «E su, cerchiamo di avere tutti un po' di buon senso». E anche questo è il segno dei tempi. Meno di un mese fa veniva chiesto a Fini di dimostrare affetto nei confronti del suo partito, di dichiarare amore verso i suoi dirigenti. Oggi gli stessi big del suo partito gli chiedono di avere «buon senso». Un tempo si spellavano le mani qualunque cose dicesse. Oggi si limitano ad un applauso di rito, lui ringrazia per il voto all'unanimità alla sua relazione,

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