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Il tramonto del leader: cerca amici, perde il codazzo

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Ora arriva da solo. Completo gessato grigio, camicia bianca con colletto alla francese, scuola Farnesina, e cravatta azzurra. Il nodo lì, almeno quello, è sempre lo stesso. Come gli ha insegnato la signora Daniela. Eccolo Gianfranco Fini. Nella mano destra una bella borsa di cuoio nera con le chiusure argentate. Meglio, eleganti ma vistose, cromate come gli scarichi di una Harley Davidson. Eccolo Fini, la prima volta in pubblico dopo la batosta del referendum. Arriva e si mette a parlare con i giornalisti. Una chiacchierata informale, così. A microfoni spenti. Lui è da solo, non ci sono peones che si piazzano dietro di lui per farsi inquadrare dalle telecamere, anche perché telecamere qui non ce ne sono. Non ci sono mezzi figuri che sperano in qualche secondo di notorietà, o quelli che sbucano dietro le spalle e si sganasciano dalle risate (finte) alla prima mezza battuta del capo. Non c'è nessuno. Fini ha voglia di chiacchierare. Anzi, finge un po'. Partito unico? Non se ne parla. Spaccatura in An? «Parlerò all'assemblea nazionale». Alemanno? Scuote la testa. Iscriversi a Forza Italia? «Alle volte i giornali non hanno notizie e riempiono con qualunque cosa le pagine». E via così. Parte anche l'attacco ai giornalisti? «È un mestiere nobile, ma certe volte...». Certe volte? «Be' è un po' come la politica. E mi fermo qui, meglio che non dica altro». Un cronista gli chiede del consiglio d'Europa. Oh, finalmente, deve aver pensato. Si va sul terreno più agevole. E passa all'attacco: «Ma lei lo sa che ha detto Junker (il lussemburghese presidente di turno della Ue)?». Imbarazzo generale. «Ecco - incalza Fini - studiate, non sapete nulla voi giornalisti. Studiate prima di fare le domande». Riecco il Fini di sempre. Braccato, attacca. E parte una dotta disquisizione sulla situazione politica internazionale. Arriva una cronista e prova a riportare il discorso sulla politica interna. Ma il leader di An, gelido, ribatte: «Signora, poteva venire prima. Non ripeto quello che ho già detto». E riprende a parlare di politica estera per concludere con un perentorio: «E ora, lasciatemi passare, devo andare a votare». Pianta tutti in asso e s'avvia verso l'aula. Lo incrocia Giuseppe Consolo che lo saluta. Anche Domenico Contestabile gli stringe la mano. Il capo è nudo. Quando riesce dall'aula gironzola da solo, mani in tasca. Si siede su una poltroncina, si guarda attorno. Quante volte gli è capitato di rimanere in Transatlantico da solo, come un peone qualunque? Poche, si vede. Fini non sa che fare. Si fruga nella tasca interna della giacca e trova il telefonino. Prova a fare un numero, ma lo sanno tutti che in quel punto non c'è campo. Lui no, prova a riprova a chiamare. Passano esponenti di An che sino a qualche giorno fa lo riverivano, pronti a lanciarsi ai suoi piedi. Ma stavolta niente, fanno finta di nulla, nemmeno una battuta per ingraziarselo, pr ricordargli che esistono anche loro. Il leader è solo. Si si alza, va nel cortile, il luogo dove si fuma e si chiama con il cellulare. Parlotta con Dario Rivolta, responsabile esteri di Forza Italia. Poi s'infila alla buvette e qui incontra Stefania Prestigiacomo. Si mettono a chiachierare, scherzano un po'. Qualche sorriso. Poi arriva Franco Servello, il grande vecchio, il grande amico di Giorgio Almirante. I due escono assieme dalla buvette, poi Fini lo saluta e torna alla sua poltroncina. Poco più in là c'è Alfredo Mantovano, un suo fedelissimo che ha appena consumato lo strappo e si è dimesso dall'esecutivo di An. Il sottosegretario all'Interno non lo degna di uno sguardo, gli resta a debita distanza e si mette di tre quarti. Sett, otto metri più in là. Fini riprende a giochicchiare con il telefonino, poi lo vede. E gli va incontro. Anche questo è un segno dei tempi. Mantovano, non più di un mese fa, gli sarebbe corso dietro. Lo avrebbe seguito come un'ombra, si sarebbe messo lì, come un cagnolino scodinz

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