«Troppo impopolare». No al salvacalcio Berlusconi fa marcia indietro: il testo avrebbe aiutato solo la Roma. Il no di Mario Monti
Non è possibile, gli italiani non capirebbero, già non capiscono adesso... Il 90% è contrario». Scuote la testa Silvio Berlusconi. È primo mattino e sulla sua scrivania sono arrivati i risultati dei sondaggi d'opinione sull'ipotesi del decreto salva-calcio. E, stando a quanto risulta al presidente del Consiglio, emerge una netta contrarietà al provvedimento da parte degli italiani. Tifosi e (soprattutto) non. E proprio questa seconda fascia preoccupa maggiormente il premier, perché con il decreto passa il messaggio che ad essere aiutate sono praticamente soltanto le squadre romane: Lazio e Roma hanno i bilanci più disastrati. In tutto il Nord, ma anche in larga parte del Sud, gli italiani non sembrano apprezzare. Anzi, sono pronti a contestare apertamente. Le proteste dei cittadini arrivano anche nelle sedi dei partiti. La Lega si mette di traverso con il capogruppo alla Camera Alessandro Cè che rispolvera il «Roma ladrona» tanto caro a Umberto Bossi, assente in campo. E il ministro al Welfare il leghista Roberto Maroni si spinge oltre e pone un veto. Si crea anche un'alleanza «spuria», con il ministro Gianni Alemanno (An) che non gli dà tutti i torti (dopo le polemiche personali delle settimane scorse) e l'Udc che insiste per fissare dei paletti. Così il Cavaliere a fine mattinata, spinto dai sondaggi e dalle resistenze interne a maggioranza e governo, manda avanti il suo portavoce Paolo Bonaiuti che frena quella che sta già prendendo le forme di una valanga che rischia di travolgere il Cavaliere: «Dispiace dirlo - spiega il sottosegretario alla presidenza del Consiglio - ma dopo gli ultimi avvenimenti pare proprio che non ci siano le condizioni politiche per l'intervento del governo questa settimana». Ma c'è di più. Il decreto dovrebbe servire a mettere in condizione i club di essere in regola per ottenere la licenza Uefa che consente di partecipare alle competizioni internazionali. Le società devono consegnare entro il 31 marzo la domanda. Il principale punto dolente riguarda la Roma, visto che è previsto che la società abbia l'ultimo bilancio certificato da una società di revisione (la ex Grant Thornton, quella di Parmalat, ha detto di no). C'è poi una questione di tecnica. L'Unione Europea ha aperte tre infrazioni nei confronti dell'Italia: per l'ultima, quella relativa all'Inail, il governo non ha ancora dato una risposta a Bruxelles. In questo contesto è impraticabile approvare un provvedimento che certamente aprirebbe un nuovo contenzioso con la commissione presieduta da Romano Prodi. Infine, esiste anche una questione relativa ai tempi. Il decreto, per essere utile entro il 31 marzo, dovrebbe essere approvato al massimo lunedì prossimo, con una riunione del governo ad hoc. In questo contesto è impossibile andare avanti, anche se gli uffici tecnici stanno lo stesso predisponendo il testo del provvedimento. Si attendono comunque tetti per gli ingaggi dei giocatori (salary cup). E ora? Che fare? Per il vicepremier, Gianfranco Fini, «bisogna fare qualcosa - dice - ma a condizione di trovare il modo di farlo. Tuttavia non sono ancora riuscito a concepire un intervento che non penalizzi le società virtuose che hanno pagato le tasse, ma che consenta anche di recuperare l'Irpef evaso da altre società». Un'ipotesi potrebbe essere quella dell'azionariato popolare. Maroni è ancora più esplicito: «Trovo difficile parlare di crisi per aziende che possono pagare 20 milioni di vecchie lire al giorno ai propri dipendenti. Se si vogliono regalare mille miliardi a delle società io non sono d'accordo». In serata aggiunge: «Il nostro no è senza se e senza ma e vale anche per la settimana prossima» L'opposizione è compatta sul «no». Fausto Bertinotti (Rifondazione) invita il premier a «deporre le armi e ragionare», Marco Rizzo (Pdci) sostiene che col decreto verrebbero «legittimati comportamenti illegali» e Vannino Chiti (Ds) parla di una crisi del calcio «dovuta al berlusconismo».