Dall'euro in poi l'Istat sbaglia i conti
A dirlo, una volta tanto, non sono istituti dalla reputazione non proprio specchiata o gruppi, attendibili, ma di parte, come le associazioni dei consumatori o i sindacati. La critica, per ora solo implicita, viene da un gruppo di economisti dell'università di Tor Vergata e dell'University of London che fin dall'avvio della transizione all'euro si sono occupati di seguire e spiegare l'andamento dei prezzi. La scoperta più recente è clamorosa, ma necessita di qualche spiegazione per chi non è abituato al linguaggio dell'economia e della statistica. Quello che sui giornali si chiama correntemente inflazione è solo uno degli indici che l'Istat rileva abitualmente, per la precisione è l'indice che riguarda i consumi delle famiglie di operai e impiegati, quindi delle famiglie a reddito medio o medio-basso. Di indici dei prezzi ne esistono anche altri, che coprono platee più ampie. Uno di questi è l'indice armonizzato dei prezzi al consumo. L'Istat, come tutti gli altri istituti statistici nazionali dei paesi dell'Unione Europea, lo misura secondo le regole stabilite da Bruxelles. Quando l'euro era già moneta virtuale (ad esempio si usava per le transazioni di Borsa) ma non circolava ancora fisicamente, come è normale l'indice dei prezzi relativo alle famiglie di operai e impiegati e gli altri indici rilevati dall'Istat non mostravano differenze ripetute nel tempo. A volte uno di essi è stato maggiore, altre volte inferiore. Il fatto clamoroso è che dopo l'avvio dell'euro, come per incanto, l'indice che rileva l'inflazione usato sui giornali e nel dibattito politico (oltre che per tanti contratti privati come ad esempio gli affitti) è stato sistematicamente inferiore, ad esempio, a quello armonizzato. In termini economici significa che secondo le rilevazioni dell'Istat l'andamento dei prezzi dopo la nascita dell'euro avrebbe, in proporzione, colpito in misura minore le famiglie a basso reddito rispetto alle altre. L'effetto cumulato nei due anni di vita fisica dell'euro, secondo i calcoli di Giancarlo Marini, Alessandro Piergallini e Pasquale Scaramozzino, autori dello studio per le Università citate, sarebbe, ad essere prudenti, dello 0,5%. Risultato che stride con le recenti affermazioni del presidente dell'Istat, Luigi Biggeri, secondo il quale la dinamica dei prezzi post-euro, proprio per la maggiore frequenza degli aumenti in settori come l'alimentare, avrebbe comunque colpito in modo più grave le famiglie meno ricche. Biggeri e l'istituto da lui diretto finiscono per dire il contrario. E per la prima volta una contraddizione così forte viene rintracciata direttamente nelle carte Istat e, sempre per la prima volta, la critica all'attendibilità dell'inflazione viene fatta usando gli strumenti dell'Istat e non rilevazioni fatte da istituti autonomi sulla cui indipendenza si può legittimamente dubitare. Ma anche il lavoro degli economisti di Tor Vergata e Londra era cominciato con le indagini sul campo. Il primo passo è stato semplice. A forza di sentire parlare di prezzi in aumento per colpa dell'euro, e anche di verificarlo personalmente, l'equipe di economisti si è messa al lavoro su un'idea tanto semplice quanto efficace. Mettere a confronto le guide dei ristoranti, all'inizio la sola Michelin, precedenti e successive all'introduzione fisica dell'euro e verificare che ne era stato dei prezzi. Risultato sconvolgente: aumenti a due cifre e il campione era anche benevolo con i ristoratori, perché nelle guide normalmente finiscono i locali di fascia medio-alta , mentre l'osservazione spicciola aveva sempre dato l'impressione che a calcare di più la mano fossero stati invece quelli che partivano da menù più popolari. Poi è stata la volta degli alberghi. Stesso metodo e ancora una volta risultati fastidiosi (per i clienti). Poi nuovamente i ristoranti, allargando però l'indagine a più guide, non solo alla rossa Michelin. Quindi i vini. Anche per le etichette di bianco, rosso e rosato la squadra di Tor Vergata, guid