È IL MARZO del 1998.
A Collecchio di Parma altrettanto saldamente siede invece Calisto Tanzi. I due si conoscono da tempo. Hanno in comune un'amicizia di vecchia data: Ciriaco De Mita, il leader della sinistra dc. Ma i due si incontravano anche nel '93 quando Prodi era presidente dell'Iri e vendette la Cirio alla sconosciuta finanziaria Fisvi, il cui 20% è di Tanzi. Fa caldo a Roma in quel marzo del '98. L'Unione Europea sta per chiudere definitivamente il capitolo degli aiuti di Stato, a via XX settembre c'è un altro democristiano di sinistra, Michele Pinto, a «sorvegliare» il ministero delle Politiche Agricole. Il governo decide di fare presto e a tempo di record viene varato un provvedimento dal titolo immaginifico: «Disposizioni in materia di contenimento dei costi di produzione e per il rafforzamento strutturale delle imprese agricole». Viene ribattezzato dal Sole 24 Ore, decreto tagliacosti. Non bisogna illudersi. Taglia i costi per le aziende, ma aumenta quelli a carico delle casse dello Stato. In altre parole, in barba a quanto stabilito dall'Unione Europea (la cui commissione, ironia della sorte, Prodi andrà a presiedere), si tratta di un aiuto di stato bello e buono. Un regalino tout court. Il governo dell'epoca, color Ulivo, disse che il provvedimento serviva a ridare competitività alla filiera alimentare attraverso una razionalizzazione della gestione aziendale. Il presupposto era che i progetti fossero multiregionali, dovevano interessare più aree del Paese. Si tratta di una torta di 200 miliardi di lire. Vengono presentati 250 progetti, 62 superano l'esame, ma soltanto otto vengono ammessi al finanziamento. I primi sei in classifica sono consorzi: Oliveti d'Italia, Moc-Olimer, Consorzio interregionale produzioni agricole biologiche, Conapi, Conav e Consorzio per la tutela del formaggio Grana Padano. Ma a beccarsi la fetta più grossa sono il penultimo e l'ultimo in classifica. Rispettivamente Parmalat spa e Citterio spa. Solo gli ultimi due incassano l'80% del finanziamento disponibile. Inutile dire che a Tanzi va la quota maggiore di fondi: ben 68 miliardi e 450 milioni. Protestano tutti, a cominciare dalla cooperative rosse e bianche perché esclusi. Protesta anche la Cia, l'organizzazione di settore più vicina al governo. Prodi va via, viene mandato a casa e al ministero delle Politiche Agricole arriva un suo fedelissimo, Paolo De Castro che poi diventerà presidente dell'istituto di ricerca fondato dal professore bolognese, Nomisma, del quale Tanzi diventerà socio (è tutt'oggi ancora nel board). De Castro non cede e, ovviamente, conferma la scelte fatte prima di lui. Non ci stanno quelli del Tavernello, i produttori del vino da tavola che fanno ricorso. Comincia una lunga battaglia legale a colpi di carta bollata. Va via anche De Castro e arriva un verde, Alfonso Pecoraro Scanio al ministero. Tutti passano, ma non Tanzi. Che alla fine incassa quei 68 miliardi. F. D. O.