«Andreotti condannato senza una prova» Solo un «teorema» ha portato alla condanna in appello. Il processo si sarebbe dovuto fermare al primo grado
Questa la conclusione alla quale arrivano - con 78 pagine di motivazione depositate ieri - le Sezioni Unite Penali della Cassazione che spiegano perchè, lo scorso 30 ottobre, hanno annullato senza rinvio la condanna a 24 anni di reclusione inflitta al senatore a vita e a Badalamenti, assolti invece in primo grado. Vuoto probatorio. Nessun nuovo processo «potrebbe in alcun modo colmare la situazione di vuoto probatorio storicamente accertata» nei confronti di Andreotti, scrive la Suprema Corte puntando l'indice contro i magistrati di appello che hanno sviluppato un «proprio teorema in violazione sia delle regole di valutazione della prova che del basilare principio della terzietà della giurisdizione». Nell'ultima pagina della sentenza 45276, Andreotti viene del tutto scagionato - dagli ermellini - «con l'ampia formula liberatoria per non aver commesso il fatto». Legittimo il lavoro del pm. Dopo aver rimproverato i togati umbri, la Cassazione dà però atto al pubblico ministero del processo di primo grado di aver agito «legittimamente» in base ai dati indiziari raccolti, nel formulare «l'astratta postulazione di un possibile interesse o movente di Andreotti» nel delitto. Ma la Corte di Appello doveva attenersi al verdetto assolutorio di primo grado perchè l'ipotesi accusatoria «seppur legittimamente formulata» - osserva Piazza Cavour - non «aveva retto l'urto del contraddittorio dibattimentale». Buscetta bocciato. Non ha superato il vaglio delle Sezioni Unite la parola del superpentito Tommaso Buscetta che aveva indicato in Andreotti il mandante morale del delitto. «È ferma opinione del Collegio» - dice il Palazzaccio - che quanto ha detto Buscetta «non risulta sorretto da alcun elemento probatorio di conferma circa l'identificazione dei tempi, delle forme, delle modalità e dei soggetti passivi del conferimento da parte di Andreotti del mandato ad uccidere Pecorelli». Il processo di Palermo. Nel suffragare la stroncatura del pentito, con un piccolo inciso, la Cassazione non tralascia di ricordare che sia il Tribunale che la Corte di Appello di Palermo si sono già espresse «in termini negativi», sulla credibilità di Buscetta, nel processo a carico di Andreotti «per il reato di partecipazione mafiosa». Manca il movente. Quesiti «cruciali» per «l'identificazione di un movente certo» - da attribuire all'accusa mossa ad Andreotti di aver voluto la morte di Pecorelli per timore che pubblicasse un memoriale di Aldo Moro nocivo alla sua carriera politica - sono rimasti «senza risposta». La Cassazione rileva che non si sa: A) «quale fosse il contenuto della busta asseritamente rinvenuta dal maresciallo Incandela nel carcere di Cuneo su indicazione di Pecorelli e consegnata al generale Dalla Chiesa»; B) «se vi fossero effettivamente le carte di Moro»; C) «se Pecorelli ne fosse venuto in possesso»; D) «se avesse manifestato l'intenzione di pubblicarle»; E) «se Andreotti avesse esternato timore per tale eventuale pubblicazione». Manca il mandato. «Che manchi del tutto la prova del mandato omicidiario, da parte di Andreotti - rileva la Cassazione - è fatto palese dalla consapevole e conclamata resa dei giudici d'appello di fronte alla molteplicità delle ipotesi configurabili: dal conferimento esplicito a quello per acta concludentia, dalla approvazione successiva al consenso tacito». Insomma la sentenza di condanna non ha mai fatto luce non solo sul «perché» ma nemmeno sul «come» Andreotti avrebbe ordinato l'uccisione di Pecorelli. Serve una riforma. La vicenda del processo Pecorelli, suggerisce la Cassazione al Parlamento, dimostra che servirebbe «un intervento mirato del legislatore, sul terreno della riperimetrazione delle opzioni decisorie consentite al giudice di secondo grado chiamato a pronunciarsi, su appello del pubbl