«Il caso Andreotti ha ferito le coscienze perciò diciamo no ai colpi di spugna»
Questa riflessione tocca innanzitutto gli amici della Democrazia cristiana, dispersi in tante nuove famiglie politiche, che in nome di un falso moralismo e alla ricerca, spesso, di una propria salvezza, da «indomito cavaliere puro», invitarono Andreotti a chiedere lui la concessione dell'autorizzazione a procedere, senza distinguere tra quello che era un attacco politico da quello che era una normale procedura giudiziaria alla ricerca della verità. E tra questi amici c'era pure chi, ricordandosi di un'antica rivalità politica spargeva dubbi antichi non, certamente, su un coinvolgimento esterno di Andreotti con la mafia, ipotesi questa mai formulata, ma su una sua «spregiudicata» se non cinica condotta politica machiavellica, che lo avrebbe portato ad essere non rigoroso nella raccolta dei voti interni di partito in Sicilia. Questi amici hanno oggi da compiere un severo esame di coscienza sulla loro condotta di allora. E avviati su questa strada, tennero a distinguere la loro condotta da quella dei «reprobi», fino a ricorrere, per prendere distanza da loro, al cambio del nome del partito, assecondando chi cercava non solo la sparizione degli uomini ma dell'intero partito della Democrazia cristiana, fino a consegnare la guida del partito a chi, certamente degnissima persona, non era stato, però, mai democratico cristiano. Vorrei anche aggiungere, per non fermarci alla «questione» Andreotti, una breve notazione su come alcuni democristiani nel 1992, che sedevano nel Consiglio superiore della magistratura, per il solo fatto di aver accettato l'invito di Martelli a collaborare con lui al ministero di Grazia e Giustizia, ritennero Falcone, su impulso della sinistra giustizialista, inidoneo a ricoprire la carica di procuratore nazionale antimafia, preferendolo, mi si disse, a Cordova sostenuto invece sempre dalla stessa sinistra giustizialista. Una severa analisi devono poi compierla gli uomini della sinistra, perché su di essi pesa il sospetto serio di un'operazione politica sulla quale non si costruisce certamente il futuro di una paese di democrazia liberale. La questione è semplice: cogliendo il vuoto politico determinato dalla crisi politico-istituzionale in atto nel nostro paese da molti anni e facendo leva su un giusto bisogno e in di moralizzazione della vita pubblica e della necessità di colpire alcuni ben individuati corrotti, volsero a proprio vantaggio (strumentalizzarono, ispirarono, incentivarono, sostennero) la rivoluzione giudiziaria per indirizzarla al taglio della testa degli uomini e dai partiti più «temuti». Vi sono, infine, alcuni politici e non che oggi scendono in prima linea nella denuncia, ma i documenti televisivi e giornalistici dell'epoca li smentiscono in modo esemplare, allora stavano in prima fila nell'attacco giustizialista ad alcune persone e ad alcuni partiti della prima repubblica. Pentirsi è sempre un bene se accompagnato al silenzio decente. È dal marzo del 1992 e non da oggi che continuo a richiamare l'attenzione dei responsabili e dei cittadini, essendo ricorso allora da ministro dell'Interno alla dichiarazione dello stato di allerta, che una manovra non certo trasparente era in atto per destabilizzare il Paese. E questa operazione veniva condotta mentre era in atto lo scontro più duro che il Paese abbia conosciuto nella lotta dello Stato alla mafia e a tutte le forme simili di criminalità. Sull'incomprensione dei miei interlocutori di allora ho pensato molto in questi anni, ma non sono riuscito a darmi una risposta coerente al mio interrogativo sul perché. Lo so bene che qualcuno attribuisce ai contenuti delle leggi che, insieme a Vassalli prima ed a Martelli dopo, ho proposto, con l'incondizionato sostegno di Andreotti, e fatto approvare. Il problema non sono le norme, ma la loro applicazione, come ha documentato A