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Andreotti: contro la mafia feci approvare leggi eccezionali. I comunisti votarono contro

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Era sicuro che la Cassazione avrebbe cancellato la sentenza di Perugia; la paura riguardava i tempi troppo lunghi e la propria età. «Ricorda - non saprei dire se con risentimento o con civetteria - che qualcuno aveva puntato proprio su questo×: "Ha superato i settanta. Non arriverà alla sentenza definitiva"». È passato un giorno e mezzo dalla pronuncia della Corte suprema. Giulio Andreotti è rilassato, ha voglia di parlare. Potrei dire che è sereno, ma sereno lo è sempre stato (o almeno ha finto di esserlo) in questi dieci anni terribili. L'ironia continua ad accompagnarlo, come sempre. Ma adesso - dopo le sofferenze patite, che sono indiscutibili - non si lascia sfuggire le occasioni per lanciare accuse e frecciate a chi se le merita. Non ho neppure il tempo per fargli una domanda. Esordisce lui: «Contro la mafia - ricorda - feci approvare leggi eccezionali che trovarono una forte opposizione in Parlamento. I comunisti votarono contro. Non sono maligno, e non voglio dire che volessero favorire la mafia. Per carità! Mi rendevo conto anch'io che il decreto legge che approvammo per non far scadere i termini di carcerazione preventiva prestava il fianco a qualche dubbio di natura giuridica. Ma se volevamo evitare che saltasse per aria il maxiprocesso non c'erano altri mezzi a disposizione. Metà degli imputati erano latitanti, gli altri sarebbero stati rimessi in libertà». Fa una pausa per rispondere al cellulare che trilla, nel silenzio ovattato dello studio di Palazzo Giustiniani, che gli compete come senatore a vita. Trillerà molte altre volte. Telefonate di congratulazioni (anche di un monsignore) per il lieto fine. Riprende dove si era interrotto. «La sentenza di Palermo dice che con il mio operato contro la mafia ho messo a repentaglio la mia vita e quella dei miei figli». Adesso la Cassazione ha cancellato, definitivamente, anche l'accusa relativa all'omicidio di Mino Pecorelli. Che effetto Le ha fatto pensare ai giudici della Corte Suprema che studiavano quelle carte nelle quali Lei era accusato di essere stato il mandante di un omicidio? «Uno strano effetto. Nell'aula della Cassazione, più di cinquant'anni fa, mi fu affidato il primo incarico politico di un certo rilievo. Alla cerimonia di insediamento intervenne il presidente della Repubblica Enrico De Nicola. Io accompagnavo De Gasperi. Mi ricordo che il cerimoniale aveva previsto tutto nei minimi particolari, con qualche dettaglio che mi fece sorridere. Si stabiliva, per esempio, che "l'arrivo del capo dello Stato sarà salutato dalla Corte con un moderato inchino". L'inchino lo fecero. Ma poi il procuratore generale Pilotti, nel suo discorso, dimenticò di salutare De Nicola. Il quale se la prese moltissimo. Alla fine strinse la mano a Pilotti, ma si rivolse a De Gasperi e gli annunciò secco: "O fate fuori lui, o mi dimetto io". De Gasperi mi incaricò di trovare una soluzione. La trovammo istituendo il Tribunale delle Acque, il cui presidente sarebbe stato parificato come grado al procuratore generale. Pilotti accettò di trasferirsi al nuovo incarico. E De Nicola, quella volta, non si dimise». Questi ricordi, presidente, confermano quel che lei ha dichiarato dopo la sentenza: che non ha perso la fiducia nelle istituzioni, perché è nato con esse. Ma, le domando: e chi non c'è nato? Chi le ha frequentate meno di lei? C'è molta gente sfiduciata. «È vero. Conservando il senso delle isituzioni dobbiamo fare il possibile per introdurre i correttivi necessari. Ma se non si opera dentro il sistema, le alternative sono molto pericolose. Penso al terrorismo che si è riaffacciato sulla scena. E credo anche che i no global, o i disobbedienti, abbiano in testa ricette non compatibili. Deve prevalere la ragione, deve essere riparato il sistema dove non funziona. Ricordando che deviazioni ce ne sono sempre. Persino fra gli apostoli - che erano soltanto dodici - ci fu chi non si comportò in modo esemplare». Occorre intervenire anche sui meccanismi della procedura penale... «Non v

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