Telekom, Milosevic era già sotto accusa
Quando fu comprata l'azienda telefonica, il dittatore era indagato per i massacri compiuti in Bosnia
E non da un giorno, da due anni. E da uno, l'ex dittatore serbo era sotto inchiesta del Tribunale penale internazionale. Procediamo con ordine. È il 16 febbraio 1995 e l'Human Rights Watch, organismo mondiale per la difesa dei diritti umani con sede a New York, attacca il gruppo di contatto, che chiede di sospendere le sanzioni per Serbia e Montenegro perché questo corrisponderebbe «ad un colpo di spugna alle presunte responsabilità dei crimini di guerra commessi da Belgrado». E ancora: «Il presidente serbo Milosevic e alcuni militari della ex Jugoslavia sono responsabili di avere armato, addestrato e sostenuto i serbo bosniaci che a loro volta sono colpevoli di genocidio in Croazia e in Bosnia». A novembre di quell'anno si firmano gli accordi di pace di Dayton ma poco dopo il Tribunale penale internazionale apre un'inchiesta su Milosevic e sui presidenti croato Tudjman e bosniaco Izetbegovic. Il Tpi a quel tempo è presieduto da un italiano, Antonio Cassese. A gennaio del '96 dell'indagine scrive anche il New York Times, diventa di dominio pubblico. A marzo dello stesso anno spunta il primo rapporto del Tpi sulle atrocità compiute nell'ex Jugoslavia: «Sono scene da inferno, scritte sulle pagine più oscure della storia umana». Le accuse più pesanti sono per Ratko Mladic e Radovan Karadzic, quest'ultimo grande sostenitore di Milosevic. Il quale automaticamente entra nella lista dei criminali di guerra. La sua posizione si fa più pesante: ora ha «responsabilità oggettive per la pulizia etnica in Bosnia». Il 18 maggio di quell'anno, il presidente del Tribunale penale internazionale, comincia a profilare l'ipotesi di arresto: «Abbiamo il potere di incriminare chiunque abbia commesso o ordinato crimini gravissimi - dice Cassese -, purché ci siano delle prove. Se avremo delle prove, noi procederemo contro chiunque nonostante le pressioni politiche». Il cerchio si stringe. A giugno il segretario di Stato Usa Warren Christopher piomba a Ginevra e impone a Milosevic di consegnare Karadzic: per gli States è una «condizione cruciale» per il rispetto degli accordi di pace. Ma il dittatore se ne frega e annuncia che Karadzic sarà capolista del suo partito nelle prime elezioni libere di Bosnia. L'11 luglio scatta l'ordine di arresto per il massacratore sostenitore di Milosevic il quale viene «deferito» al Consiglio di sicurezza Onu per il comportamento scorretto di «non cooperazione». Karadzic viene arrestato poco dopo, il dittatore serbo prende una boccata d'ossigeno e, come al solito, si finge democratico. A novembre riprenderà la repressione della piazza, la comunità internazionale non gli crede più, ormai è al tappeto, tutti credono che sta per cadere. Tutti tranne qualcuno in Italia che gli dà 900 miliardi di lire. Da quel momento riparte la «soluzione finale» contro gli albanesi.