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SENZA entrare nel merito delle sentenze, delle audizioni, delle inchieste incrociate fra le varie procure, ...

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Sembra davvero - come spesso in questi ultimi tempi - che l'unico argomento di dibattito politico sia collegato agli interventi (o alle omissioni) dei magistrati. Non è più in ballo l'annoso - e delicatissimo - problema dei rapporti (e del rispetto) fra i vari poteri dello Stato. È in ballo il ruolo stesso della politica, che non può ridursi a un feroce scambio di accuse e di illazioni sull'altrui disonestà. Il professor Giovanni Sartori (in un'intervista a La Repubblica), commentando la sentenza Previti, ha sostenuto che "la svolta, l'avvento spudorato e senza rimorso dei grandi ladroni, avviene con Berlusconi, e cioè con il partito azienda", mentre "prima i fondi neri, le tangenti e le mazzette pagavano la politica. nessun democristiano 'di razza' si è arricchito personalmente". È un'opinione rispettabile, quella del professor Sartori, ma - in quanto opinione - è tautologicamente opinabile. Sorprende che l'illustre studioso abbia potuto verificare la destinazione "privata" della corruzione anni Novanta (in un periodo da lui vissuto soprattutto negli Stati Uniti) e abbia dimenticato i tanti scandali che allietarono l'Italia negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta (quando lui, insegnando a Firenze, aveva la realtà sotto gli occhi). Basterebbe ricordare Fiumicino, le banane, l'Anas, la Lockheed: con quali strumenti è possibile oggi misurare le eventuali percentuali di "interesse privato" in quelle vicende ormai lontane? Quel che è possibile sottolineare - viceversa - è il ribaltamento dei rapporti fra politica e magistratura. Basterebbe ricordare uno degli ultimi discorsi di Aldo Moro che, difendendo in parlamento, il suo compagno di partito e di corrente Luigi Gui (chiamato in causa nello scandalo Lockheed, che lambì persino il Quirinale) pose un veto politicamente ben più massiccio di tutti i possibili Lodi Maccanico: "Non ci faremo processare in piazza", tuonò dai banchi di Montecitorio. La verità è che allora, la classe politica godeva di guarentigie consistenti: l'immunità parlamentare, il tribunale per i ministri. E contava sulla prudenza (che sconfinava spesso nel riguardo e nella deferenza) dell'autorità giudiziaria. Dal 1992 il rapporto fra i due poteri si è ribaltato. La politica è diventata ostaggio della giustizia. La politica si è intimidita, al punto da cancellare, motu proprio, le garanzie di legge delle quali in precedenza godeva. E al punto da rinunciare a provvedimenti autonomamente concepiti (come il decreto Biondi del 1994, sprezzantemente definito "salvaladri"). I cittadini potrebbero anche lavarsene le mani, ritenendo che tocchi a magistrati e politici sbrigarsela per conto loro. Ma non è così. La debolezza della politica è un disastro per il Paese, per qualsiasi Paese. Se Palazzo Chigi, Palazzo Montecitorio e Palazzo Madama vengono commissariati dai vari Palazzi di Giustizia, la comunità civile che vive e progredisce di amministrazione e legislazione va, fatalmente, a ramengo. Il primato della politica (al di là delle tentazioni qualunquistiche che affiorano regolarmente nell'opinione pubblica) è essenziale per garantire progresso e sviluppo. Siamo - fino a prova contraria - una repubblica parlamentare, non una repubblica giudiziaria. È angosciante l'idea che il prossimo biennio (sul semestre europeo il disastro è già compiuto) possa essere dominato dalle urla dei giustizialisti di sinistra che vorrebbero Berlusconi in galera (per i processi ora sospesi) e di quelli di destra che vorrebbero Prodi in ceppi per aver tentato di svendere (a metà degli anni Ottanta) la Sme e per aver lucrato su Telekom Serbia. Non sarebbe, piuttosto, il caso di abbassare i toni delle polemiche e alzare il profilo del dibattito?

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