«Nessuna pressione sui Paesi amici»

Non è un pressing sull'Europa giocato a quattro mani. Mani dalla presa salda, quelle tunisine, che stringono accordi e insieme serrano il giogo al collo dell'immigrazione clandestina. Mani fragili, quelle libiche, da cui scivolano e salpano, e sciamano migliaia di disperati. Mani arabe, mani sorelle, è indubbio, ma Hedi Mhenni, ministro dell'Interno tunisino, nega e si oppone alla strategia del «lasciar fare». «Non fa parte della nostra cultura, del nostro linguaggio, della nostra etica e morale il sistema del pressing sui Paesi amici, tantomeno adottare la tecnica del lasciar fare - afferma deciso - soprattutto non appartiene alla storia delle relazioni fra Italia e Tunisia che da sempre hanno intrattenuto eccellenti rapporti». Certo, il ministro ha ragione. Le relazioni sono eccellenti e il linguaggio diplomatico non inganna sui contenuti. Ma c'è di mezzo il mare, quello che inghiotte navi di notte con 250 sventurati a bordo e, al contempo, è la loro stella polare verso la speranza nel domani. Mentre i clandestini sono, in fondo la speranza, non troppo celata, dei loro governi. Perché Bruxelles intervenga, perché l'Unione europea comprenda che, come dice Hedi Mhenni, «non siamo noi gli unici gendarmi del Mediterraneo. Noi facciamo del nostro meglio, siamo fieri delle nostre politiche ma siamo al centro del problema e questo ci richiede sforzi enormi». Non sono loro i gendarmi del Mediterraneo, d'accordo, e non lo è l'Italia, ma il semestre di presidenza italiano è alla porte e la geografia gioca a sfavore. Per Gheddafi, il leader libico, non c'è troppo pudore a strumentalizzare. Raramente, del resto, un negoziato con l'Europa gli era stato servito con posateria pregiata quanto questo. E clandestini affamati equivalgono a un insperato foie gras. Necessitano di mezzi, aerei e navali, per essere controllati. Esattamente quei mezzi che l'embargo militare sul Paese non consente di fornire. Richiedono concertazioni e accordi così come strategie comuni con i Paesi europei, destinazione finale dei flussi, per arginare e per gestire gli arrivi. In ultima analisi costano. E non certo alla Libia che non può, ma all'Europa che non può accoglierli. Che non può gestirli. Le tragedie in mare, le singole storie di miseria, anche se molto più spesso sono altrettanto intrise di percorsi criminali - molti dei clandestini maghrebini hanno nei loro luoghi d'origine precedenti penali che li inducono a tentare la fuga - il lungo esodo dai Paesi del Golfo di Guinea, attaverso il deserto, la sete, la fame il caldo fra le piste carovaniere del Sahara, tutto ciò fa dei disperati esuli i testimonial mediatici per le transazioni economiche dei Paesi africani con l'Ue. La Tunisia non si espone quanto la Libia, ma si espime. E lo fa, autorizzata dai recenti e inebrianti successi in materia di controllo delle coste, fornendo il suo decalogo a chi si surriscalda le meningi alla ricerca della formula magica anti-immigrazione illegale. Harry Potter permettendo, la bacchetta magica va orientata in tre direzioni: «in primis - come suggerisce il ministro Mhenni - adottando strategie preventive che incoraggino i giovani a restare nel proprio Paese, creando opportunità di lavoro, poi concertando con i paesi amici, Italia e Francia in pariticolare, opportune misure in materia di controllo e, non ultimo, perseguendo una politica degli investimenti, principalmente nelle zone candidate all'immigrazione, che porti lavoro ai giovani e condizioni economiche tali da scoraggiare la fuga». Tre formulette che puntano tutte verso un'unica scuola di magia, quella persa fra le brume del clima Bruxellese che ha sede nel quartiere comunitario dell'Unione europea.